Ora basta. Dimissioni e governo di unità nazionale: è tempo di una grande colazione. Non c’è scelta. O si fa in questo modo o pagheremo le conseguenze di una cattiva gestione della cosa pubblica per i prossimi venti o trent’anni, trascinando probabilmente l’Europa con noi. Il fallimento del governo di Silvio Berlusconi è ormai sotto gli occhi di tutti eppure questo centro-destra non accenna ad ammetterlo. In qualsiasi altro Paese europeo nessuno avrebbe tollerato la distruzione progressiva e costante di un Paese, come è accaduto ogni volta che Silvio Berlusconi è stato al governo. Sono i fatti che lo dimostrano. Tutti gli effetti negativi che ora si vedono sono frutto di 10 anni d’assenza di un governo (di cui 8 governati dal Cavaliere in generale e da Tremonti in particolare). Si sono fatte poche scelte e quelle fatte erano sbagliate. Ecco i fatti: ne analizzeremo i principali.
Questa è stata un’estate terribile, un anno terribile. Il 150esimo dell’Unità d’Italia si rivela l’anno in cui tutti i parametri del paese impazziscono. La tendenza è catastrofica ed è destinata a trasformare un Paese ricco e prosperoso, uno dei protagonisti indiscussi del XX° secolo, in un Paese medio del mondo globale. L’Italia, se la situazione non cambia, sembra destinata a ritagliarsi nel futuro molto prossimo un ruolo di comprimario industriale, politico e militare (vedi Libia), soggetto alle decisioni altrui, sia all’interno dell’Unione Europea che nel contesto mondiale.
Le agenzie di Rating sono state spietate, trasformando il nostro debito pubblico nel fardello che impedisce ogni azione. Tra settembre e ottobre, Standard & Poor’s , Moody’s e Fitch hanno tagliato il grado di affidabilità del debito sovrano italiano: Moody’s ha abbassato il rating del debito italiano da AA2 a A2, Fitch a «A+» da «AA-», con outlook negativo. Un bagno di sangue che ha portato sfiducia e, con la sfiducia, l’innalzamento dello spread BTP/Bund di cui sentiamo parlare tutti i giorni nei telegiornali. Ricordiamo che l’ultima volta che l’Italia fu declassata fu nel nell’estate del 2006, pochi mesi dopo che il quinquennio 2001/2006 di Berlusconi era terminato.
I giorni dopo aver declassato il debito sovrano dell’Italia, l’agenzia Moody’s ha tagliato il rating di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste italiane e Terna. E’ stato tagliato anche il rating anche delle principali banche italiane: Intesa Sanpaolo e Unicredit. Dopo è stato il turno del rating di lungo termine di numerosi enti locali italiani, tra cui le città di Bologna, Genova e Milano, la provincia di Mantova, la regione Marche, la provincia di Roma, la regione Sicilia, la regione Emilia Romagna, la regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, la regione Liguria e la regione Umbria. Le ripercussioni sono semplici e chiare: anche gli enti locali, come lo Stato, avranno maggiore difficoltà a chiedere prestiti e quindi rischiano di disporre di meno soldi per fornire i servizi erogati.
Il caso degli enti locali è drammatico: a causa dei tagli lineari del ministro Tremonti, lo Stato passerà molto meno denaro ai comuni, alle province e alle regioni, e loro stesse, a causa di un indice di affidabilità inferiore, dovranno pagare più interessi per domandarne. Per trovare altro denaro, potranno solo aumentare le imposte locali. In breve: se ci aumenterà il prezzo dei trasporti locali, se non avremo più sevizi ai disabili e agli anziani sappiamo perché. Non erano politiche inevitabili, soprattutto perché si poteva programmarle da tempo (già dal quinquennio 2001-2006, se al centro-destra interessava davvero il federalismo).
Dopo le istituzioni, le aziende a partecipazione statale, le aziende di credito, è il turno delle grandi aziende. Emblematico il caso di Fiat. Moody’s nel corso dell’anno ha abbassato il rating di Fiat: da BA1 a BA2, con outlook negativo, a causa della maggiore integrazione con Chrysler. In ottobre è il turno del credito di Fiat: l’agenzia di valutazione del credito Fitch ha abbassato il rating di lungo termine della Fiat da ‘BB+’ a ‘BB’, con outlook negativo. Cosa c’entra la Fiat con l’Italia, potrebbe chiedersi qualcuno? In questa domanda stanno tutte le cause della decrescita continua e costante del paese. La Fiat è stata per decenni simbolo di un sistema paese manifatturiero operoso e avanzato. Quella sinergia tra grande impresa e paese ha permesso all’Italia di essere uno degli attori principali dell’industria mondiale. E’ quello che è accaduto anche con Finmeccanica , Enel ed Eni. Si sono fatti degli errori, certamente, ma l’errore più grave sarebbe quello di lasciare morire una realtà simile. E purtroppo è quello che sta accadendo, con la chiusura di Termini Imerese in Sicilia, dell’Irisbus in Irpinia, dell’Iveco a Brescia, oltre che con l’allontanamento definitivo dell’Alfa Romeo dalla sua terra d’origine, la Lombardia. Potremmo elencare centinaia di imprese di componentistica che accompagnavano questi sistemi industriali da più di un secolo e garantivano lavoro in quelle regioni che la Lega Nord finge di difendere. Le aziende che chiudono e falliscono sono una costante degli ultimi dieci anni, come questo magazine denuncia da tempo, eppure sembra che non vengano mai incluse nelle ragioni della decrescita del Paese. Un Paese che si deindustrializza non cresce per definizione (soprattutto se non sceglie, assennatamente, la finanza come alternativa). Se il lavoro non c’è più, non c’è debito pubblico che tenga. E questo vale all’ennesima potenza per l’Italia, che per vocazione secolare è una terra manifatturiera.
E invece no. Negli ultimi dieci anni di governo Berlusconi abbiamo perso quote di mercato in maniera esponenziale. Le notizie ci sono arrivate, come per beffa, sempre quest’anno. Dopo il primo semestre 2010, la fase di recupero post-crisi in Italia ha subito una brusca frenata e dista dal massimo pre-crisi (-26,1%) ancora molto: -17,5%. Per forza industriale l’Italia è scalata dalla quinta alla settima posizione, superata da India e Corea del Sud, avendo perduto 1,1 punti di quota. Con una quota del 3,4% della produzione manifatturiera globale, l’Italia è ora a solo due incollature sopra il Brasile, che viaggia ad una velocità molto più sostenuta. Questo significa che ben presto anche il Brasile supererà la nostra produzione industriale. Un Paese fiero di sé e con la voglia di contare al mondo, avrebbe già mandato a casa chi non è stato in grado di mantenere il nostro ruolo nel mondo.
L’ultimo capitolo di questo breve articolo senza pretese di completezza, è quello dell’avanzo primario. Ma è un capitolo cruciale, per capire come e perché siamo arrivati a questo punto. E ancora una volta se ci sono due responsabili sono proprio Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. La cartina tornasole di quello che accaduto è l’anno 2009. Nel 2009, un anno dopo che il centro-destra è tornato al governo, la spesa per interesse dello Stato è stata più alta delle Entrate. Per la prima dal 1991, l’Avanzo primario ha segnato in quell’anno un deficit (-0,6%). Sono poi calate le Entrate fiscali nonostante lo “scudo” di Tremonti, mentre il rapporto Deficit/Pil ha segnato un pesantissimo 5,2%. Il dato peggiore dal 1996.
Il 2009 è stato per la nostra economia una specie di annus horribilis. Praticamente non c’è un solo dato macroeconomico positivo, sia rispetto all’anno precedente sia nel confronto con i nostri principali competitors esteri. Il prodotto interno lordo, cioè quello che produce in un anno il nostro Paese, è crollato del -5%. Il calo del Pil è stato il maggiore rilevato “nelle serie storiche dell’ISTAT che partono dal 1970″. La recessione dell’ultimo biennio è risulta di gran lunga la peggiore dal dopoguerra. Nel 2009 il Pil totale è regredito, in termini reali, al livello del 2001. Il Pil per abitante (pro capite) è a sua volta sceso al livello di quello raggiunto nel 2000. Stesso andamento hanno avuto inoltre sia le esportazioni, sia le importazioni. Nel 2009 rispettivamente hanno segnato un calo del -20,7% le prime e del -22% le seconde. Anche in questo caso si è trattato del peggior dato dal 1970. Lo stesso rapporto tra il Deficit pubblico e Pil, parametro fondamentale contenuto nel “Trattato di Maastricht”, quello sull‘Unione Europea che, per quanto riguarda la finanza pubblica, stabilisce che questo rapporto dovesse essere pari, per tutti i Paesi membri, al massimo al 3%, si è invece attestato nel 2009 al 5,2%, in netto peggioramento dal 2,7% del 2008 (sotto il governo Prodi). Ricordiamo che nel 2009 e nel 2010 il governo Berlusconi negava la crisi e ricordava che l’Italia stava facendo meglio degli altri paesi.
Ma, come annunciato prima, tra i dati più catastrofici, quello che balza subito all’occhio è l’avanzo primario, vale a dire la differenza tra le entrate e le spese dello Stato esclusi gli interessi sul debito, che nel 2009 è risultato pari a -0,6% contro il +2,5% dell’anno precedente: si tratta del primo calo dal 1991. Un disavanzo in un solo anno, come si vede, di più di 3 punti percentuale. Negativo, infine, anche il saldo corrente (in pratica il risparmio): -2% nel 2009 contro il +0,8% del 2008. Dal 2000 al 2008, ogni volta che il centrodestra ha governato è peggiorato l’avanzo primario e sono aumentati la spesa pubblica corrente ed il debito (vedi dimostrazione in power point).
E’ meglio fermarsi, se non vogliamo scoppiare a piangere. Queste sono ore decisive e bisogna avere il coraggio di cambiare perché così, volenti o nolenti, non si può continuare. Forse Silvio Berlusconi al summit di Bruxelles di domenica scorsa ha dichiarato di non essere stato mai bocciato. Ma i fatti dimostrano il contrario. La sua gestione dell’Italia è stata un fallimento; è ora che ceda il passo e lasci lavorare le persone competenti. In questo momento c’è bisogno di un governo di unità nazionale e un premier imparziale che rimetta in sesto questo paese. Un nome c’è, è condiviso ed è quello di Mario Monti. Ora al parlamento dimostrare di essere davvero responsabile e che in Italia si possono fare le grandi coalizioni. Per il bene del Paese.