La firma a Roma per i 60 anni dell’Unione Europa, avvenuta sabato 25 Marzo, è l’occasione per riflettere sul futuro di questa istituzione. I leader europei nella sala degli Orazi e Curiazi, davanti al documento fondatore del 1957, sono stati chiamati a sottoscrivere un testo per rilanciare nei prossimi dieci anni l’integrazione europea.
L’attuale Commissione Europea, guidata da Jean-Claude Juncker, è succeduta alla Commissione Barroso II dal 1º novembre 2014. Più volte si è parlato di questa Commissione come l’ultima possibilità per non fare fallire il progetto europeo. La strada sembra in salita, la matassa troppo difficile da sciogliere. La sensazione è che l’opinione pubblica si sia ormai assuefatta all’idea d’Europa e abbia perso ogni entusiasmo iniziale per il progetto, vedendolo come un processo politico-ecomico non più prioritario, o peggio dannoso. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i populismi anti-Europa e anti-Euro si consolidano, riproponendo come soluzione la vecchia idea di stato-nazione. Di fronte alle mille critiche quotidiane all’Europa, è bene chiarirsi le idee, per poter approfondire l’argomento e cercare di capire quale futuro possiamo assicurare a questa istituzione e alle nostre vite di cittadini europei.
Cos’è l’Unione Europea e perché l’abbiamo fatta?
L’Unione europea è un’unione politica ed economica di carattere sovranazionale che comprende ad oggi 28 Paesi (ben presto 27 a causa della Brexit) membri liberi ed indipendenti del continente europeo. La sua formazione risale al 1951, anno in cui i sei Stati fondatori (Germania Ovest, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo) hanno firmato il trattato che ha istituito ufficialmente la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). L’obbiettivo era creare una comunità d’interessi che evitasse gli antagonisti nazionalisti, causa di due guerre mondiali, col fine di creare un’area economica ricca e influente che sapesse trarre vantaggi da politiche comuni in tutti gli ambiti, dalla difesa all’agricoltura, passando per il commercio e la cultura. La CECA si trasformò poi in Comunità Economica Europea nel 1957 con la firma del Trattato di Roma. Il nome attuale risale al trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, che garantisce la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali all’interno del suo territorio. L’attuale forma istituzionale è stata stabilita dal Trattato di Lisbona, che è entrato in vigore il 1º dicembre 2009. Oggi l’Unione Europea si estende su oltre 4 milioni di km² e conta 503 milioni di abitanti, collocandosi al terzo posto nel mondo in termini di popolazione, e rappresenta la prima forza economica mondiale, con un PIL di 17,512,109 milioni di dollari nel 2013 secondo il Fondo monetario internazionale, contro i 16,768,050 degli Stati Uniti, i 9,469,124 della Cina e i 4,898,530 del Giappone.
Aria di crisi
Dall’inizio del secondo decennio degli anni 2000 le cose non sembrano funzionare più, in particolare da quando la crisi americana dei Subprimes del 2008 si è spostata nel vecchio continente trasformandosi in crisi dei debiti sovrani e della moneta unica. La prima e più celebre vittima è stata la Grecia, che si è trovata a rappresentare tutti i punti non risolti di una costruzione politico-economico cresciuta troppo alla svelta e in un contesto mondiale sfavorevole. Gli avvenimenti che hanno portato alla Brexit, poi, non fanno che sottolineare il malcontento che circola in molti strati della popolazione europea.
Il meccanismo europeo si è inceppato, ogni azione politica, economica e culturale sembra non essere più in grado di garantire il buon funzionamento della macchina istituzionale e la popolazione si sta disafezionando a un progetto che, all’epoca della globalizzazione, sembra ridursi a una tecnocrazia burocratica, lontana e insensibile. Esistono quindi degli errori fatti negli ultimi anni che meritano di essere analizzati. Innanzitutto l’allargamento a Est è stato troppo rapido, in secondo luogo la costruzione europea, nata sotto il segno del liberalismo tra i Paesi aderenti, è stata realizzata contemporaneamente alla globalizzazione, cresciuta in modo repentino sotto il dogma del liberalismo mondiale.
L’ingerenza nazionale
La coppia franco-tedesca, in guerra dal 1871 al 1945 in preda ai nazionalismi ottocenteschi, è stata all’origine di questa intuizione politica che ha garantito pace e prosperità ai suoi cittadini fino all’esordio del XXI° Secolo. E tutta l’Europa ringrazia. Ma l’Unione Europea è ormai costruita ed esistono istituzioni solide e condivise. Fa quindi sorridere il ricorrente protagonismo di Francia e Germania di fronte a vicende politiche ed economiche che ormai dovrebbero essere gestite direttamente dalle istituzioni europee. Pensiamo alle numerose riunioni per salvare l’Euro, fino ai negoziati sulla crisi Russo-ucraina. La coppia franco-tedesca continua ad anteporre risposte nazionali a problemi sovranazionali che andrebbero risolti attraverso le istituzioni europee. I due Paesi hanno innaugurato negli anni 2000 un nuovo corso che antepone gli interessi nazionali a quelli continentali, una strada presto seguita da molti Paesi europei, riducendo l’Unione a un insieme di istituzione tecniche e burocratiche, influenzate dagli interessi nazionali, ben lontane dalle istanze democratiche che hanno guidato il sogno europeo tra gli anni ’70 e gli anni ’90. In particolare la Germania, dopo aver usufruito dell’Europa durante la riunificazione, negli ultimi vent’anni non ha esitato a perseguire una politica di riorentamento verso Est, nell’area d’influenza dell’ex Unione Sovietica. I paesi dell’Est, che restano saldamente legati alle loro monete, si sono subordinati alla Germania, diventando i centri di produzione a basso prezzo delle imprese tedesche, i cui prodotti sono esportati nei Paesi della zona euro e nel resto del mondo. Questa condizione favorisce le delocalizzazioni d’interi comparti industriali europei da Ovest ad Est e i cosiddetti “Paesi periferici” della zona euro, troppo cari per poterli mantenere, sono continuamente tenuti sotto scacco da un sistema economico che non vuole condividere il debito pubblico come accade per ogni moneta. Accanto al protagonismo della coppia franco-tedesca dobbiamo ricordare il perenne isolazionismo inglese, sfociato nella Brexit, a cui si affianca la coalizione dei Paesi Baltici, impegnati a difendere i loro esclusivi interessi, e il progressivo imporsi di isole fiscali come nel caso del Lussemburgo e dell’Olanda.
Le follie della globalizzazione
I nuovi confini europei, determinati con l’allargamento all’Est, hanno creato nuovi squilibri all’interno dell’Europa. Al posto di coordinare una decina di Paesi come negli anni ’80, l’Unione Europea deve ora governare 27-28 Stati, non tutti con la stessa moneta, che devono gestire allo stesso tempo la tempesta economica della globalizzazione. Ogni Paese dev’essere competitivo in Europa e nel mondo, cosciente che i confini europei sono porosi, facilmente raggiungibili, esposti all’arrivo indiscriminato di merce e capitali provenienti dai Paesi Emergenti. I traffici commerciali europei sono regolati da norme liberiste al proprio interno che non sanno costruire alcuna forma di protezionismo verso l’esterno. L’Europa si è piegata alla religione del libero mercato mondiale e si presta quindi a una doppia forma di concorrenza: verso l’interno, tra i Paesi dell’Ovest e quelli dell’Est, e verso l’esterno con i Paesi Emergenti. Questa stato di perenne incertezza favorisce forze centripete, spingendo i Paesi europei a negoziare separatamente accordi commerciali e politici con i colossi extraeuropei (asiatici, mediorientali e Stati Uniti in primis) al posto di agire come un unico soggetto geopolitico che potrebbe ancora, data la sua dimensione, imporre i propri voleri e la propria direzione al mondo. Una sorta di “divide et impera” al contrario, autoimposto da una logica suicida.
L’assenza di una politica industriale e fiscale
In questo contesto, il continente che contava più imprese da più secoli, patria della rivoluzione industriale e delle principali conquiste scientifiche, tecniche ed industriali della Storia, sta progressivamente deindustrializzandosi, privo di una politica economica comune che sappia rispondere alle sfide del mondo globale. Invece di creare gruppi industriali a scala continentale che sappiano imporre il loro volere al mondo, l’Europa sta progressivamente vendendo a gruppi extraeuropei i pezzi rimasti delle diverse industrie nazionali che avevano costituito la colonna vertebrale dell’economia europea nel XIX° e nel XX° secolo. Tranne la Germania, che riesce a mantenere una forte industria nazionale, i Paesi tradizionalmente industriali, come l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, hanno svenduto progressivamente pezzi del proprio patrimonio manifatturiero, perdendo il controllo di interi comparti industriali. Come non pensare innazitutto alla siderurgia, ragione prima della formazione della CECA nel 1951, svenduta progressivamente a gruppi indiani, dimenticando che si tratta del fondamento stesso dell’industria della difesa? O come non citare l’industria automobilistica, ferroviaria, nautica, chimica (dalla farmacia alle plastiche), fino ad arrivare all’informatica e all’agroalimentare, nelle mani di gruppi multinazionali le cui sedi si spostano dove più conviene e le cui fabbriche delocalizzano dove la manodopera è più vantaggiosa? A questo aggiungiamo l’assenza di un’armonizzazione del fisco e del diritto del lavoro tra i Paesi europei (ancora più grave, tra quelli della zona euro) che amplifica i processi descritti sopra, creando squilibri fiscali e sociali, con il conseguente aumento della disoccupazione e la perdita di controllo da parte delle istituzioni democraticamente elette.
Quale identità per l’Europa
La tempesta della Globalizzazione, figlia di un capitalismo sfrenato, privo di regole e morale, ha creato nell’Unione Europea importanti squilibri sociali e demografici. Dalla fine degli anni ’80 il fenomeno dell’immigrazione, un tempo riservato ai Paesi con un passato coloniale, si è generalizzato coinvolgendo l’intero territorio europeo. Molti Paesi si sono trovati di fronte a questioni nuove, mai affrontate, che pongono nuovi interrogativi e mettono in crisi paradigmi antichi. I fatti hanno superato le aspettative e l’identità europea è stata messa in discussione nel momento stesso in cui si definiva. I cittadini europei hanno dovuto confrontarsi con l’arrivo di nuove popolazioni extraeuropee prima ancora d’imparare a conoscersi tra loro, come l’Europa unita auspicava dopo la caduta del Muro di Berlino (pensiamo ai numerosi progetti di scambio culturale promossi dall’Unione) e questo ha creato una diffidenza verso lo straniero che ha progressivamente coinciso con la diffidenza tra i cittadini europei stessi. Un caso evidente è la contrapposizione tra l’Europa del Sud e del Nord che si sta progressivamente definendo e che ricorda tassonomie pseudoraziali che la Storia ci insegna essere forzate quanto false (nonché ancorate ad antiche differenze religiose memori della riforma e della controriforma). Il risultato di questa “globalizzazione etnica” della società europea coincide con la formazione di una società, molto simile a quella americana, in cui l’universalismo repubblicano viene sostituito da un comunitarismo scaturito dalle origini etnico-nazionali o dall’appartenenza religiosa. Ma l’Europa non è l’America, si tratta di un continente antico che si è costruito in milleni di Storia. Riscotruire la sua identità sul modello di un continente “nuovo” nato secondo paradigmi opposti, non può essere che una scelta errata. L’Europa ha sviluppato negli ultimi due secoli una società social-democratica molto diversa da quella americana e l’aver sostituito la questione sociale all’europea con il comunitarismo (che spesso è anche sinonimo di classismo raziale) è un errore i cui risultati saranno sempre più evidenti nei prossimi anni.
L’Europa dei valori e la non-Europa dell’Euro
In conclusione il Contratto Sociale teorizzato da Rousseau, che aveva regolato la vita degli stati-nazione europei e che si era cercato di applicare all’Europa come continente, sta fallendo. Il convivere democratico tra i cittadini pretende la parità dei diritti, dei doveri e delle opportunità, e l’Unione Europea di oggi, con tutti i suoi squilibri, si allontana progressivamente da questo modello. Il cittadino europeo non si sente più tutelato né a livello nazionale, dove lo Stato è disgregato di fronte ai super-poteri delle istituzioni europee, né a livello continentale, in cui prevalgono gli interessi degli Stati più forti d’Europa e quelli delle multinazionali, ormai prive di ogni collegamento con i territori e gli uomini che le avevano create. Siamo quindi di fonte a un bivio: se in Europa dobbiamo superare il concetto di stato-nazione, è necessario crearne uno nuovo per l’Europa intera, per proteggere i valori e gli interessi di un continente-nazione che è rimasto l’unica alternativa possibile alla società darwinista e concorrenziale imposta dalla globalizzazione. Fino a prova contraria, la globalizzazione sta destrutturando e impoverendo l’Europa; perché dovremmo continuare a sostenerla? L’Unione Europea ha le capacità di proporre un modello alternativo al mondo, basato su diritti civili solidi e istanze ecologiche sostenibili, ma prima deve portare a compimento il processo d’unificazione iniziato nel 1951, definendo dei confini precisi al proprio territorio e alla propria identià. L’Unione Europea deve stabilire delle priorità, scavando nelle proprie ragioni più profonde, che uniscono la filosofia greca e l’illuminismo, il Sacro Romano Impero e le lotte operaie, deve superare i tecnicismi della moneta unica per ritrovare le ragioni profonde dello stare insieme. Solo così potrà ritrovare se stessa e proporre un nuovo modello di sviluppo, di convinvenza, di cittadinanza.