Di Fabrizio De André si sa praticamente tutto o perlomeno è quello che pensiamo noi. Le biografie dedicate al cantautore genovese sono migliaia e tutte documentano un’esistenza per molti versi leggendaria. Però, per chiunque voglia scavare più a fondo, ci si rende conto in fretta che il De André uomo è terribilmente sfuggente. Ognuno custodisce dell’illustre genovese una propria immagine e se la tiene ben stretta come se fosse un santino. Eppure, dietro la corazza del mito, c’era un uomo in carne e ossa con il suo genio, ma anche con i suoi difetti. Il peggiore tra tutti era sicuramente quello di essersi iscritto alla Siae.
De André fu costretto a confessare quest’orrendo misfatto solo nel ’64 ad Aulla, durante la serata di premiazione del Premio Lunezia. Il dirigente della Siae di Roma – presente alla serata col compito di premiare De André – aveva ritrovato il testo d’esame del cantautore genovese: una canzone inedita di De André. Il testo viene consegnato a Ugo Pagliai che, con voce impostata, recita il titolo: Spiaggia d’autunno.
De André strappa il microfono a Pagliai e precisa: «Il titolo non è mio, l’avevano deciso i commissari». Ma, nonostante sia chiaro che preferisca interrompere la lettura, non può opporsi a quella pubblico umiliazione.
Dori Ghezzi sghignazza, De André si divide tra l’imbarazzo e il divertimento. Alla fine confessa: «È una pagliacciata da non prendere sul serio. Quando sostenni l’esame d’ammissione come autore alla Siae di Roma scrissi una poesia che per metà rubacchiava dalle Foglie morte di Prevert. I commissari non ci fecero caso. Gli altri candidati non conoscevano Prevert e avevano grossi problemi con l’ortografia».
Maledetto il Premio Lunezia e maledetta Fernanda Pivano che l’aveva convinto a ritirarlo, non fosse stato per loro questa faccenda non sarebbe mai venuta fuori.
«Ricordo quell’esame come se fosse ieri – racconta il cantautore genovese –: avevo già scritto canzoni importanti come La ballata del Michè, La ballata dell’eroe, Il testamento però non potevo depositarle alla Siae perché non ero iscritto. Mentre scrivevo la canzone-tema un ragazzo seduto sul banco dietro mi batte la schiena e mi chiede con accento del sud: “Restano va con due enne, vero?”
C’erano due ore a disposizione per dimostrare di saper scrivere un testo poetico su un tema prestabilito. Io consegnai dopo mezz’ora e poi aiutai altri candidati. Ancora più amena fu la prova, che consisteva nel riscrivere un testo di una canzone nota rispettandone la metrica: mi capitò Pinne, fucile ed occhiali di Edoardo Vianello. Risate ancora maggiori all’esame di melodista, dove un notissimo collega eseguì le dodici misure che andavano aggiunte per completare le quattro proposte fischiettando, perché non era in grado di accennarle su nessuno strumento».
E De André? Fischiettò pure lui?
«No, suonai il pianoforte – si affrettò a precisare l’autore –. Conoscevo bene il pentagramma. A dodici anni la mamma pensò bene di mandarmi a lezione di violino. Che io rifiutavo di suonare perché mi faceva male al mento e alla clavicola e mi provocava ferite. Così corrompevo il maestro Gatti con dolci alla crema, perché mi dispensasse da ogni tentativo e suonasse invece per me brani di Tartini e Paganini. L’accordo finì quando la mamma scoprì queste “non lezioni”. Per fortuna conobbi Alex Hilralodo, maestro di chitarra colombiano che mi fece amare quello strumento».
E i modelli di De André? Quali erano?
«Amavo Paoli, Bindi, i grandi francesi e Tenco. Dicevo che la sua canzone Quando l’avevo scritta io. Una sera lui mi becca in una balera di Genova e mi dice minaccioso: “E vero che in giro ti vanti d’aver scritto Quando?. E io: “Sì. Lo faccio per portami a letto le ragazze”. Diventammo amici. Dylan lo scoprii più tardi. Per merito di De Gregori».