Una casa disabitata. E’ una finestra aperta sul porto di Genova, sulle navi che partono verso la Sardegna, l’ America, l’ Asia. Da qui, dal silenzio di una stanza vuota, inizia il viaggio alla ricerca delle parole di Fabrizio De André, che aveva scelto questo appartamento, nel cuore del porto antico, per tornare a vivere nella sua città. Non sapeva ancora della malattia, di quella “morte che verrà all’improvviso/ avrà le tue labbra e i tuoi occhi/ti coprirà di un velo bianco/ addormentandosi al tuo fianco” (La morte).Ma il viaggio, a un anno dalla morte di De André, può cominciare proprio qui, da quel ritorno mai avvenuto, dalle canzoni che Fabrizio non ha fatto in tempo a scrivere. Impossibile non chiedersi come avrebbe raccontato la Genova di oggi, così diversa da quella descritta nelle sue prime canzoni, trent’ anni fa. Non ci sono più le “graziose” insieme aspre e materne, accoglienti e rassegnate che insegnavano l’amore a Fabrizio e ai suoi amici. Le prostitute dietro piazza Banchi oggi arrivano dall’Africa, dall’Albania, se ne stanno agli angoli dei vicoli ad aspettare quei clienti che le chiamano con parole che non riescono a capire. Genova, come tutte le nostre città, sta cambiando. Ma di sicuro De André sarebbe riuscito a vedere anche oggi “gli occhi grandi color di foglia” nello sguardo spaesato di Adele, una “graziosa” nigeriana di 22 anni che a mezzogiorno è già li, in via Canneto , in mezzo alle signore che fanno la spesa, agli impiegati in pausa pranzo. E di sicuro avrebbe composto in una canzone le musiche africane che oggi escono dalle finestre delle case affacciate su via di Ravecca insieme con i suoni e le voci delle mense maghrebine di via Canneto il Lungo . Sono sbarcate l’una dopo l’altra, a migliaia, da quella nave rossa, l’ Habib, che arriva dalla Tunisia sempre piena e riparte sempre vuota. Il viaggio lungo le parole di De André si svolge a Genova, appunto. Ma perché diventi avventura, scoperta, bisogna dimenticare le guide. Fate una prova; lasciate perdere la cartina e disegnatene una secondo le coordinate suggerite dai testi e dalla musica. Certo, sarà diversa per ognuno di voi; diversa anche da quella vista da Fabrizio De André.
Ma alla fine vi sembrerà più fedele all’idea vera della città, in cui i luoghi fisici si confondono con altri invisibili, dove la linea di una strada incrocia con quelle disegnate dalle ragazze che “a dumenega fan u gíu /cappellin neuvu neuvu u vestiu” (alla domenica fanno il giro, cappellino nuovo nuovo il vestito (A dumenega).
Si parte in quell’ora un po’ incerta, che non è più notte e non ancora giorno. L’appuntamento è lì, in piazza Cavour . E sono le voci a guidarvi, le avete già sentite all’inizio di Creuza de ma, sono le urla delle donne che vendono il pesce. Pare impossibile, ad ascoltarle così, nel grande stanzone del mercato , che possano diventare una musica. Bisogna saper ascoltare, magari chiudere gli occhi e sentire che salgono di tono e poi si trascinano come in una litania. Poi di nuovo si ripetono in un ritornello. Le donne stanno in piedi dietro uno scranno, è una vera e propria asta, e i compratori si fanno intorno, guardano, ascoltano. Sono i prezzi migliori che fanno la differenza, gli occhi dei pesci, le squame ancora lucide, ma anche quelle voci che catturano chi vuole comprare. Gli uomini intanto portano i pesci che arrivano da Rapallo, Camogli, Nervi. Gli ultimi, le barche li stanno scaricando non lontano dal mercato, nella Darsena , anche se sono rimasti pochi i pescatori nel centro storico. Partono nel cuore della notte con i vecchi motori diesel che borbottano regolari e vanno al largo. Laggiù accendono la lampara. Ci vuole tempo, il pescatore deve aspettare a lungo, da solo. Intorno c’è soltanto il rumore delle onde che sbattono contro lo scafo e i tonfi dei grossi pesci che saltano fuori dalla superficie e fanno un po’ paura. Niente altro. La città è silenziosa vista dal largo. Di notte scompaiono il cielo, i monti e perfino il mare; resta soltanto quella striscia luminosa arrampicata sul buio. I pescatori la guardano per ore, è la loro unica distrazione. Magari cercano i posti dove vivono durante il giorno, dove abitano le persone che conoscono, e forse pensano di vedere un poco anche loro stessi, da qualche parte.
È il vento che cambia direzione ad avvertirli che è il momento di tornare, perché “alla riva sbarcherò/alla riva verrà la gente/questi pesci sorpresi li venderò per niente” (Le acciughe fanno il pallone). C’è sempre gente ad aspettare i pescherecci quando entrano nel porto, con i pesci ancora un poco vivi che si dibattono nelle stive, che annegano nell’aria. Il sole è dietro il monte di Portofino, non è ancora arrivato a riscaldare l’atmosfera, a renderla più leggera; e se vi inoltrate lungo le calate dei vecchi moli, l’aria è sempre quella: “spessa, carica di sale, gonfia d’ odori” (La città vecchia). Provate allora, seguendo la mappa dentro di voi, a percorrere il molo dei Magazzini del Cotone dove un tempo attraccavano le navi che giungevano dall’India. No, non ci sono monumenti, almeno quelli segnalati dalle guide, ma incontrerete la Porta Siberia , chiamata così perché qui venivano raccolte le cibarie, e poi gru d’acciaio alte decine di metri che quasi sembrano delle enormi statue, e poi ancora cime da ormeggio e catene spesse: come il torace di un uomo. Un molo, si spinge in mezzo all’acqua marrone e pesante del porto, sulla superficie i riflessi luminescenti del petrolio. La Lanterna è vicina: un lampo, quattro secondi di buio, un altro lampo e altri venti secondi di buio. Ogni faro ha la sua firma e quella luce per chi naviga vuol dire essere arrivati a Genova.
[fonte: Creuza de ma]