Firmata l’intesa alla Prefettura di Milano tra la Innse e l’azienda bresciana Camozzi, l’accordo è stato raggiunto nella notte tra l’11 e il 12 agosto. I quattro operai, che protestavano dall’alto di un carroponte da una settimana, sono scesi stanchi ma soddisfatti. L’accordo garantisce la continuità industriale del sito e la riassunzione per i 49 lavoratori in mobilità dal maggio 2008.
Cosa rappresenta questo accordo?
Un risultato importante per un fine necessario: garantire la presenza del tessuto industriale e produttivo sul territorio italiano, evitando delocalizzazioni e deindustrializzazioni che a lungo termine ucciderebbero l’economia italiana e non garantirebbero un adeguato reddito a chi in Italia ci abita (gli italiani in primis).
Uno smacco a quegli imprenditori, di cui l’Italia purtroppo è piena, che smantellerebbero volentieri fabbriche e siti produttivi a favore di facili guadagni immobiliari senza rischio e senza investimento.
Un episodio utile a dimostrare che le lotte sindacali non sono il capriccio sessantottino e parassitario di una certa sinistra chic e nullafacente, ma sono la conseguenza di un domanda estrema di normalità e regolarità: si chiede lavoro (e lavoro sul proprio territorio) per condurre una vita normale, da cittadini liberi che possono fare una famiglia e far crescere i propri figli nella propria terra. Perché, alla faccia delle bandiere padane e delle ronde, se in Lombardia le aziende chiudono una dopo l’altra, prima o poi i cari padani andranno a lavorare in Germania. Emigrati anche loro.
E per noi, che siamo più ambiziosi, il problema riguarda tutta lo stivale, la sfida non è evitare di deindustrializzare il Nord ma è industrializzare anche il Sud.