L’Italia deve ripartire. Deve riconquistare fette di mercato, deve ricominciare a produrre, deve diventare più competitiva. Insomma deve tornare a crescere. Lo stesso Giulio Tremonti, al termine del seminario sulla valorizzazione del patrimonio dello Stato, tenutosi in via XX settembre, ha affermato. “Con oggi prende avvio una grande riforma strutturale per la riduzione del debito e per la modernizzazione e la crescita del Paese”.
Questa è l’esigenza primaria. Senza crescita non si potrà mai raggiungere il pareggio di bilancio né una riduzione del debito pubblico. Non si potrà ridurre la disoccupazione, né rassicurare veramente i mercati. Secondo uno studio compiuto dagli economisti de Lavoce.info, però, la causa principale della nostra incapacità a crescere sono i contratti a termine. E questo perché: “I contratti a termine hanno un impatto negativo sugli incentivi ad accumulare capitale umano specifico”.
I ricercatori ritengono che il declino della nostra produttività non dipenda da un rallentamento dell’accumulazione dei fattori di produzione, ma dalla diminuzione dell’efficienza con cui questi sono utilizzati. In sostanza la produttività del lavoro scende, perché il lavoratore non viene formato e sostenuto nella sua realizzazione.
Come si vede dalla tabella qui riportata l’Italia ha fatto larghissimo uso di tali contratti. Il nostro Paese, inoltre ha realizzato, in materia di contratti atipici, i cambiamenti legislativi più drastici, tanto che l’indicatore Ocse relativo al grado di protezione per i contratti a termine (che varia su una scala da 0 a 6) è sceso, da noi, di ben 3,5 punti negli anni 1995-2007, rispetto a una media di –0,45 negli altri paesi europei.
Secondo i ricercatori il risultato di questo vasto utilizzo di lavoro non tutelato ha portato ad una forte diminuzione della Produttività Totale dei Fattori (PTF), ossia dell’indice che misura la crescita del prodotto attribuibile al progresso tecnico (calcolata come differenza tra il tasso di crescita del valore aggiunto e i tassi di crescita dell’input di lavoro e dello stock di capitale, ponderati con le rispettive quote distributive). Da noi, il progresso tecnico utilizzato non porta ad un aumento della crescita, perché chi lo dovrebbe mettere a frutto non ha le competenze necessarie. Nel lungo periodo l’idea di diventare più competitivi grazie alla riduzione dei salari e alla precarizzazione del lavoro sembra non dare i frutti sperati.
Forse la Confindustria dovrebbe preoccuparsi meno della realizzazione delle “grandi riforme strutturali” (leggi pensioni) e promuovere una differente politica industriale e del lavoro.
L’argomento è sicuramente molto rilevante e ha pesanti conseguenze di politica economica. Lo stesso Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia e futuro Presidente della BCE, nella sua lezione magistrale all’Università di Ancona, ha detto: “senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”.
2 commenti
Domenica sul terzo ho visto un servizio sulla condizione degli archeologi del comune di Roma. Pietosa. Il lavoro non è tutelato e non vale nulla. Tutti i precari dovrebberoo fare un grande sciopero e bloccare tutte le attività che dipendono da loro. questo non è più lavoro.
hai ragione giulio, ma oggi purtroppo lo sciopero lo si fa per categorie: la categoria A il giorno 10, la categoria B il giorno 15, la categoria B si dissocia e poi lo organizza il giorno 21 dicendo che le ragioni non sono le stesse. In una situazione cosi’ non si puo’ combattere alcunché.
Buon lavoro!
Roberto