Ai miei editori: A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dato pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna. (Emilio Salgari)
Il sartiame geme. Da lì sotto può sentire i passi sul ponte farsi sempre più concitati. La tempesta è in arrivo, non avranno tempo per ricordarsi di portagli da mangiare. Deve farlo ora, prima che la nave rolli troppo. Il taglio deve essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l’alto. In fondo gli dispiace per lei, sono diventati in qualche modo amici, ma non ha scelta. Gira leggermente le anche in senso orario e posa a terra il ginocchio sinistro, poi quello destro. Le punte dei piedi rivolte all’indietro e i talloni a formare un appoggio su cui si siede con la schiena e la testa erette. Mani sulle cosce, spalle rilassate, ginocchia aperte: respira in silenzio. Il corpo non deve cadere all’indietro, ma sa che i marosi forse non gli daranno questa soddisfazione, togliendoli anche l’ultimo onore.
La nave comincia a ondeggiare, la lama dovrebbe splendere nella penombra della cabina ma non è così. Nulla di importante è mai come ci si aspetta che sia, anche un seppuku su una nave pirata che va incontro a una tempesta ha il colore banale di un pezzo di metallo inerte.
Una luce fioca si perde lungo il corridoio, giù fino al bagno.
È inginocchiato di fronte allo specchio, il sudore sulla fronte, la testa ciondola come scossa da un moto perpetuo. La lama è ferma nell’aria; l’asciugamano, la mensola, il rasoio, tutto vacilla nervoso.
Si va verso la fine come a un ballo senza invitati, soli e danzanti. Vorrebbe darle l’ultimo saluto, ma Jolanda non entra. Ha i lunghi capelli corvini sul volto, appare e scompare dietro il fascio di luce tenue. E soprattutto tace.
Il puzzo della stiva è insopportabile. Il timoniere deve essere impazzito, va dritto verso l’uragano, e di sicuro con il sorriso in volto. Così li ammazzerà tutti.
Ma in fondo non importa, lui sarà già morto e forse nessuno capirà, quando troveranno il relitto, che la sua fine è stata diversa dalle altre. Lo ha scelto, in qualche modo. Gli altri sono stati scelti, scelti dall’oceano. Che sa sempre dove cercarti e dove trovarti. La campana in coperta suona l’emergenza. Gli ultimi momenti.
Il campanello suona inascoltato da alcuni minuti. Gli scuri alle finestre sono semichiusi, il silenzio nel cortile interno è quasi irreale. Qualcuno bussa coi pugni alla porta, «Dottore, dottore è in casa?»
C’è foschia nella stiva. Penetra dalle travi fradice della chiglia, presto uno dei lati potrebbe cedere. Il rischio è di finire spazzati via dall’acqua e dal legname prima di aver terminato il lavoro. Un lavoro che richiede impegno, precisione, serietà. Nulla deve essere lasciato al caso se si vuole che il messaggio arrivi a quei porci lassù, ovunque essi siano.
Per sé ha scelto una lama di alluminio, per la loro coscienza un coltello di parole. Almeno lo spera. Il rumore sordo di battiti violenti sopra la stiva lo risveglia per un attimo. Forse è lei, gli vuole dire qualcosa. Anche solo con quei suoi occhi azzurri. Impenetrabili. È sua figlia, dopotutto.
Respirare profondo, pancia in dentro e petto in fuori. Lasciare che tutta l’angoscia soffi via con l’aria dei polmoni, e sentirsi leggeri. Pronti. Nessuno bussa più in coperta. Un falso allarme forse, un barile che si frantuma sull’albero, forse.
O forse è Testa di Pietra che cerca di salvare il suo prezioso vino bretone, o un capitano, uno dei tanti, che lo vuole salvare. Ma ormai ha deciso. Respirare profondo.
Un uomo in mezzo al cortile si arrampica sul piccolo albero tra le aiuole, allunga il collo per riuscire a vedere qualcosa. «Sembra deserto in cucina. Forse è nella stanza da letto». Si dondola sul ramo una, due volte e poi si lascia cadere sul prato all’inglese. Arriva una signora anziana con la spesa, l’uomo la ferma. «Il dottore è in casa? È forse malato?» La donna alza le spalle e insieme si mettono a fissare le finestre al primo piano.
Dov’è la sua bambina? Nata da un quarto di calamaio di inchiostro nero e uscita corvina dalle pagine. Non poteva essere altrimenti, sussurra inginocchiato al primo piano di un palazzo anonimo, nella stiva di una nave che sta per affondare. La porta della cambusa cigola, un miagolio insopportabile. Sente un calore al corpo, un dolce tepore. Vogliono farlo desistere… Ma tu bambina dove sei? Una sagoma nera fluttua sinuosa da una parte all’altra della camera, da una parte all’altra della stiva. «Dimmi qualcosa. Giusto per far passare il tempo, per trovare l’attimo propizio».
La lama si libra nell’aria, taglia le ombre. Non è ancora il momento. La sagoma scura si avvicina. I capelli sono lisci, morbidi. Le sfiora appena la fronte e poi il naso. «Ora ti devo lasciare, figlia mia».
Accanto all’uomo a alla vecchietta con la spesa si sono affiancati due ragazzini, uno ha un pallone sottobraccio. Tutti guardano verso le finestre al primo piano.
«E la gatta?» Chiede uno dei bambini all’uomo. «Perché, il dottore aveva una gatta?»
La signora si volta di scatto verso l’uomo. «Perché parla al passato?»
La lama entra nella pelle, nella carne appena, poi si ferma. Così non va. Più deciso, più coerente. Allontana la lama dallo stomaco come per prendere la rincorsa. Questa volta il taglio è deciso. Penetra in orizzontale e poi in verticale con un gesto automatico. La vista si offusca, il respiro accelera, l’aria non scende più ai polmoni.
Quando arriva il carro ambulanza nel cortile si è già formata una piccola folla. Un uomo si avvicina ai due barellieri intenti a uscire dal portone con la lettiga. «È il dottor Salgari?»
Uno dei due portantini, con indifferenza, alza un lembo del lenzuolo, i più vicini sbiancano in volto.
La gatta gira per la casa vuota. Passa dal divano al tavolino di bambù, in cerca di qualcosa. La notte è fresca, ariosa. Le luci della strada si riflettono sulle mura del corridoio, ripetono un percorso preciso: parete, armadio, porta del bagno e ritorno. L’animale le insegue come per gioco poi infila l’ultima porta in fondo al corridoio.
La luce dello specchio è ancora accesa, nessuno l’ha spenta. Anche le macchie di sangue sul pavimento sono ancora lì, compatte come una lastra di marmo scuro. La gatta salta sulla mensola e rimane, come ipnotizzata, allo specchio. Pare quasi si riconosca, il pelo corvino, gli occhi azzurri, impenetrabili.
[Kai Zen – diffuso con Licenza Creative Common Attribution-NonCommercial-ShareAlike 1.0]