La calda estate dell’economia europea sta sfumando in un autunno infuocato: la fibrillazione dei mercati non sembra arrestarsi e i rischi di default per un numero crescente di Paesi (Italia compresa) sembrano costantemente aumentare. Il 2011 è forse l’anno peggiore dall’inizio della crisi che ha investito l’economia e la finanza internazionale nel 2008. Si pensava che il fallimento delle banche più esposte (tutti ricordiamo gli scatoloni portati a braccio dagli increduli impiegati di Lehman Brothers), gli interventi del Fondo Monetario Internazionale e di un’incerta Unione Europea, il monitoraggio dei conti sempre più rossi dei PIIGS (eloquente acronimo con cui si indicano Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, considerati gli anelli deboli dell’Europa unita) potessero arginare la catastrofe che stava travolgendo il mondo capitalista. E invece.
La speculazione finanziaria, i mutui subprime, la bolla immobiliare: le dimensioni della crisi sembravano lontane anni luce rispetto alla vita quotidiana dell’europeo medio. Tre anni dopo, il gossip non trova (quasi) più posto nella cronaca e nei discorsi tra amici e colleghi. La recessione è percepita come vicina e reale, e inizia a far paura. L’atteggiamento della stessa classe dirigente nostrana, che fino all’ultimo ha negato la crisi temendo un prematuro collasso elettorale, è emblematico dell’aggravarsi della situazione: il governo italiano ha dovuto arrendersi all’evidenza dei fatti e ammettere le difficoltà attraversate della nostra economia. La crescita è un ricordo lontano, lo scenario più positivo per l’Europa tutta, e l’Italia in particolare, è la stagnazione. Si tratterebbe di una prospettiva ad oggi assai rosea: l’Europa sembra ormai incapace di proseguire lungo un percorso economico virtuoso.
Il nocciolo della questione è legato alla competitività perduta del vecchio continente. L’ingresso sui mercati di un numero crescente e variegato di paesi in crescita ha avuto conseguenze tragiche per l’occupazione e l’industria. La concorrenza di molti paesi (la Cina in primis) è in parte sleale, ma le leggi del mercato non si fondano certo su principi come correttezza, moderazione ed equilibrio. L’Europa, semplicemente, non è produttiva (ad eccezione di alcune specializzazioni d’eccellenza tecnologica o finanziaria) per ragioni connesse al costo del lavoro, alla legislazione sindacale, alla contrazione dei consumi, agli apparati statali mastodontici che bruciano risorse e ostacolano gli investimenti esteri.
Il centro nevralgico dell’economia mondiale, in termini di produzione e di erogazione di servizi, si sposta sempre più verso l’Asia: un continente che sembra composto da una pluralità di sub-continenti (la realtà cinese e quella indiana ne sono esempio), in grado, da soli, di creare un contesto di autosufficienza nella creazione di domanda e offerta. Il mondo, quello che una volta ci azzardavamo a chiamare terzo mondo, cresceva, mentre Germania, Gran Bretagna, Italia, Francia e Spagna pensavano di mettere al sicuro il proprio primato economico rifugiandosi nella finanza, spesso nella speculazione, perdendo totalmente il controllo sugli esiti di tale strategia.
Ma se si produce poco a costi elevati, il lavoro diminuisce o si delocalizzano le imprese. Se la disoccupazione è alta, i consumi si contraggono e si fanno necessari interventi pubblici per proteggere le fasce più deboli colpite dalla crisi. Gli stati si indebitano e vedono innalzarsi il proprio deficit, ed in virtù di ciò, diventano progressivamente incapaci di ripagare gli interessi sui prestiti che ricevono. Tali meccanismi sono veri quanto più la spesa pubblica è gestita con leggerezza e i conti sono in disordine.
Gli europei, alcuni più di altri (italiani, greci, spagnoli) vivono adesso al di sopra delle loro possibilità, o meglio, vivono con aspettative distorte circa la capacità dei loro Stati di soddisfare esigenze di welfare complesse e onerose, e giustamente si indignano di fronte all’austerità che colpisce soprattutto i soliti noti. I governi dovrebbero riconoscere i sacrifici dei propri cittadini e chiederne di nuovi solo ammettendo, con coraggio e onestà, che il sistema, così come funziona oggi, è arrivato al capolinea. La storia ha archiviato la pianificazione socialista come strategia fallimentare e potrebbe presto archiviare anche il capitalismo euroamericano: drogato di speculazione, ormai incompatibile con uno stato sociale sempre più articolato e improduttivo a determinate condizioni di gestione.
L’Europa potrà risollevarsi dalla catastrofe se saprà sviluppare un’etica post-capitalista che metta al centro le esigenze dei cittadini e non quelle delle borse, se affronterà la sfida dell’integrazione vera, non fatta di bandiere o banconote, ma di solidarietà, regole e obblighi comuni. Arrivati a questo punto il fallimento potrebbe essere necessario per rinascere dalle ceneri di un sistema iniquo che non si rassegnarsi a morire ed è pronto a trascinare tutti nel baratro.