Lungo le arterie che portano al villaggio olimpico e attorno ai siti storici sono stati sistemati quaranta milioni di vasi di fiori. Piazza Tien An Men, da sola, ne ospita un milione. Giganteschi cartelloni decorati dallo slogan “Un mondo, un sogno” nascondono ovunque i cantieri ancora in corso, le gru e le squallide abitazioni degli operai.
Nuvole grigiastre, combinazione infelice di inquinamento e foschia, avvolgono i palazzi inaugurati di recente, le strade semivuote e i nuovi Suv del corpo della polizia armata, donando alla città un’atmosfera onirica. Qualche metro più in basso sono scomparsi i venditori di strada. Non si trova più né il sarto di quartiere, né il prezioso anziano che gonfiava le gomme della bicicletta. Sono spariti i mendicanti fuori dallo Starbucks lungo il viale della Pace eterna. Vestiti e dvd pirata sembrano non essere mai stati un commercio redditizio per gli abitanti di Sanlitun. Hanno chiuso anche le trattorie di strada, quelle dove pranzavi con due euro. Per entrare all’Università serve un permesso speciale rilasciato a pochi professori. Sono svaniti perfino gli studenti occidentali. I loro visti non sono stati rinnovati.
Un misto di misure contro l’inquinamento, contro possibili dimostrazioni e a favore di un’immagine pura hanno sterilizzato la città. Ad ogni domanda, i pechinesi rispondono: «Dopo le Olimpiadi».
La vita è stata messa in pausa. È in scena la finzione dello spettacolo. Il volto reale della capitale e la fotografia di quello che vorrebbe lasciare in ricordo al mondo sono ben diversi.
Così come ben diverse sono la possibilità di riuscire a battere gli Stati Uniti nel medagliere olimpico e quella di conquistare l’oro sul podio delle superpotenze mondiali.
Mentre si appresta a diventare il palcoscenico del globo, Pechino si ostina a negare o nascondere i suoi piedi di argilla, nella speranza che, come milioni di cinesi, anche il resto del mondo esalti i suoi progressi economici e la cultura millenaria, ignorando le debolezze politiche, sociali, economiche e morali. Le Olimpiadi stanno però mettendo a nudo il doppio volto del paese.
Il direttore della sicurezza del comitato olimpico cinese, Liu Shaowu, ha annunciato che durante i Giochi saranno riservati tre parchi pubblici ai cittadini che intendano protestare. Ma – il diavolo sta nei dettagli – i dimostranti vi avranno accesso solo se otterranno il permesso dalle autorità cittadine.
«L’ultima volta che gli attivisti dei diritti umani hanno chiesto un permesso o se lo sono visti rifiutare o sono finiti in carcere», spiega Sara Davis, direttore esecutivo della ong “Asia Catalyst”. A dispetto di ogni promessa fatta alla comunità internazionale per aggiudicarsele, le Olimpiadi non solo non hanno portato maggiore democrazia ma hanno inasprito la repressione.
Negli ultimi mesi, sostiene un report di Amnesty International, decine di attivisti cinesi sono stati imprigionati (tra cui Yang Chunlin, che aveva coniato lo slogan “Vogliamo i diritti umani non le Olimpiadi”); a migliaia di persone è stata tolta la casa in nome dello sviluppo edilizio (Ye Guozhu è stato arrestato per avere richiesto il permesso ufficiale di protestare contro il sequestro della sua casa di Pechino, doveva uscire a giugno ma sarà tenuto in carcere fino alla fine dei Giochi); molti giornalisti sono stati arrestati, i siti Web bloccati (perfino all’interno delle strutture olimpiche) e l’uso dei campi di lavoro forzato, dei pestaggi in prigione e delle esecuzioni capitali in luoghi pubblici è aumentato.
La Cina è la più grande prigione al mondo per cyberdissidenti: 50 giacciono nelle sue galere. Tr
a questi Hu Jia, arrestato otto mesi fa per avere criticato le Olimpiadi e la loro organizzazione su siti basati all’estero. La soppressione della rivolta dei tibetani dello scorso marzo ha mostrato che il governo non tollera nessuna forma di autonomia culturale.
La nazione-gigante è talmente fragile che un’autonomia di culto o di pensiero potrebbe minarne i confini. Perfino punire i politici corrotti potrebbe mettere in crisi il sistema. I genitori delle migliaia di bambini che hanno perso la vita nel terremoto del Sichuan a causa del mancato rispetto della normativa edile da parte di funzionari locali corrotti, hanno dovuto affrontare la scelta tra il carcere o una modesta compensazione in denaro. Ottenere il processo dei colpevoli non rientrava tra le opzioni concesse.
La Cina è anche il paese che detiene il record assoluto delle esecuzioni capitali. Ed è uno dei pochi che si
rifiuta di pubblicarne le statistiche. Secondo “Nessuno Tocchi Caino”, il numero di esecuzioni capitali nel 2007 ha superato quota 5 mila.
Nelle relazioni internazionali, la Cina si accompagna per lo più con autocrazie come l’Iran (suo terzo fornitore di petrolio), con regimi militari cruenti come la Birmania e il Sudan, o con dittature di lunga data come l’Angola (suo primo fornitore di petrolio) e lo Zimbabwe. Ma questa politica di supporto al dittatore peggiore del momento in cambio di un accesso preferenziale alle materie prime, sebbene vincente nel breve periodo, potrebbe rivelarsi perdente alla lunga, considerata sia l’instabilità dei regimi politici in questione sia l’
intolleranza della popolazione locale verso il disprezzo razziale mostrato dai cinesi nei loro confronti e lo sfruttamento sconsiderato delle loro risorse.
Già adesso in Namibia, in Lesotho e nello Zimbabwe il risentimento crescente si sta trasformando in atti violenti contro gli “invasori”. In Etiopia, Nigeria e Guinea Equatoriale i rapimenti e le uccisioni di cinesi stanno diventando frequenti. Una realtà lontana dallo slogan “un mondo, un sogno”.
Anche all’interno la realtà è ben diversa dallo spettacolo messo in scena. Il divario di reddito tra i cittadini delle campagne e quelli delle città è in continua espansione: l’anno scorso, secondo l’Accademia delle Scienze Sociali, il gap aveva raggiunto un rapporto di uno a sei.
Il coefficiente di Gini, l’indice che misura il divario di ricchezza, era salito in Cina da 40,7 nel 1993 a 47 nel 2004 (100 è il massimo della disuguaglianza), rispetto al 36 dell’Italia e al 40,8 degli Usa.
Tale disparità è il risultato del privilegio che Pechino ha dato all’efficienza economica sull’uguaglianza, nella convinzione che la crescita economica porterà beneficio a tutti mentre, al momento, una repressione ben organizzata può evitare la crisi.
Intanto il tasso d’inflazione è salito l’anno scorso a oltre il 7 per cento, il livello più alto degli ultimi 11 anni.
Il costo di alcuni alimenti di base come il riso e la carne è aumentato anche del 40 per cento. Per i più ricchi non fa alcuna differenza. Per i più poveri potrebbe volere dire rinunciare all’educazione dei figli. Le difficoltà economiche, la rabbia verso gli arricchiti, l’infinita corruzione di politici e giudici hanno fatto sì che il numero delle proteste nelle province sia aumentato da 10 mila nel 1994 a 80 mila l’anno scorso. Tra le ultime, quella di giugno a Wang’an, nella provincia di Guizhou, dove una ragazza è annegata, per cause naturali secondo la polizia, per colpa di tre uomini che l’avrebbero stuprata e uccisa, di cui uno figlio del vicesindaco, secondo la versione dei cittadini. Lo zio, un insegnante, corso dalla polizia per chiedere aiuto, è stato bastonato a morte.
Sul fronte ambientale la situazione è altrettanto preoccupante. Pechino in questi giorni sta combattendo con ogni mezzo per ottenere un livello di inquinamento che, considerato ottimale per i Giochi, è pur sempre cinque volte superiore a quello dei giorni peggiori di New York. Il resto del Paese è alle prese con un livello di intossicazione talmente elevato da causare quasi un milioni di morti premature all’anno. La Cina ospita 16 delle venti città più inquinate del mondo.
La difficoltà di ripulirle è esemplificata dagli sforzi della capitale: metà dei suoi 3,3 milioni di veicoli sono stati tolti dalle strade e le fabbriche inquinanti delle province circostanti (lontane anche 500 chilometri) sono state chiuse, senza compensazione per imprenditori e operai. Il cielo però è sempre grigio. A tirare su gli animi, ci ha pensato il vicedirettore dell’ufficio per la protezione ambientale che, a dispetto degli evidenti segni di inquinamento pesante, ha annunciato che il mese di luglio ha avuto 25 giorni di aria pulita. Insomma, i comunicati stampa di governo sono fatti e i fatti sono pettegolezzi.
Le delegazioni straniere sorridono a denti stretti. Sorrideranno ancora meno se verrà provato che la Cina usa per gli atleti lo stesso parametro con cui misura l’inquinamento e i diritti umani. Secondo il “New York Times”, l’età di due ginnaste cinesi in odor di medaglia sarebbe inferiore ai 16 anni richiesti per gareggiare. He Kexin e Jiang Yuyuan sarebbero nate nel 1994 e avrebbero 14 anni. Ma sul loro passaporto, emesso nel 2008, l’anno di nascita è il 1992. Se l’incidente dovesse trasformarsi in crisi, sarebbe l’ennesimo occhio nero sul volto perfetto che Pechino insiste a voler presentare al mondo.
[fonte: L’Espresso]