In un caldo pomeriggio d’agosto, madre, padre e figlio si mettono in macchina e si dirigono verso il Qihang Salvation Training Camp, nella Cina rurale. Il centro dista appena una mezz’oretta dal loro albergo a Nanning, ma il viaggio a Deng Fei e Zhou Juan sembra assai più lungo. Sul sedile posteriore il loro figlio Deng Senshan non apre bocca per tutta la strada. Ha un’espressione abbattuta, mentre contempla il paesaggio in rapido movimento della provincia di Guangxi nella Cina meridionale, fatto di magazzini, edifici non terminati e campi aperti. Non ci vuole andare, al campo (e chi vorrebbe?) ma i suoi genitori hanno capito di non avere altra scelta.
Il campo di Qihang promette di guarire i ragazzi affetti dalla cosiddetta internet-addiction, una malattia che è arrivata a essere considerata uno dei più temuti rischi per la salute pubblica. L’opuscolo del campo sostiene che ne sia affetto circa l’80 per cento della gioventù cinese. Il quindicenne Deng Senshan a quanto pare rientra nella casistica. Era uno studente brillante, ma negli ultimi due anni i suoi voti hanno avuto un tracollo e ha smesso quasi completamente di fare attività fisica. Passa la maggior parte del tempo immerso in videogame come World of Warcraft, negli internet café o sul suo computer di casa. I mezzi di informazione cinesi sono pieni di storie terrificanti su ragazzini impazziti per WoW, che sono caduti morti stecchiti o hanno accoppato i genitori, e Deng Fei e Zhou Juan hanno avuto paura di perdere il loro unico figlio per mano di un demone tecnologico che a malapena sanno cosa sia. Si sono dunque fatti allettare dalla promessa di mettere fine al suo “cattivo comportamento”. Ma quando finalmente si arriva a vedere il posto, non si tratta del tradizionale edificio tipo scuola che Deng Fei aveva immaginato. Assomiglia piuttosto a un carcere mal tenuto – un decrepito edificio di cemento, a tre piani, con le sbarre alle finestre e cespugli incolti. In lontananza, al di là di un campo con l’erba alta e tagliente, la ciminiera di una fabbrica sputa una nube nera. Su un doppio campo di basket, una banda di teenager in tuta mimetica è impegnata in una sessione di allenamento, sono sudati fradici nel caldo subtropicale. Gli operatori, in camicia nera con distintivi della polizia militare sul petto, stanno a guardare.
La famiglia scende dall’auto. È circa l’una del pomeriggio. «Non voglio restare qui», supplica Deng Senshan. Deng Fei soffoca un pizzico di incertezza, mentre getta un’occhiata al figlio. «Ti farà bene», promette. «Tra un mese sarai fuori di qui, forte e sano». Sua madre scherza dicendogli che si farà un po’ di tintarella. Ma anche lei sta cercando di soffocare le sue ansie. Prende da parte uno degli operatori e gli chiede come mai il campo sia così isolato e perché i ragazzi siano costretti a fare sport con un caldo simile. «A casa vivono troppo tra gli agi», risponde lui, spiegando che la durezza fa parte della terapia. «Non li picchiate, vero?», chiede lei. L’uomo nega, deciso: «Usiamo solo mezzi psicologici, qui». Non si sono detti arrivederci. È quello che Deng Fei e Zhou Juan ricorderanno in seguito, la mancanza di congedo. I genitori di Deng Senshan pagano in anticipo oltre 7000 yuan (circa 700 euro) per un mese di cure, poi restano a guardare mentre il figlio viene condotto in una stanza appena oltre il campo da basket. I capi hanno consigliato loro di andarsene. Guarirà prima, dicono. Mentre si allontana, però, Zhou Juan non riesce a resistere alla tentazione di dare un’ultima occhiata al figlio. Attraverso una fessura, lo vede accasciato in poltrona con il capo chino. «Sembrava così triste», ricorda. «Se avesse alzato gli occhi e mi avesse chiesto di tirarlo fuori di lì, io lo avrei riportato a casa». Lui non alza gli occhi. Internet è notoriamente un’inarrestabile macchina getta-scompiglio: rovescia modelli economici, istituzioni culturali, le norme sociali, qualunque cosa tocchi. Ma perfino rispetto ai suoi standard anarchici, in Cina ha avuto un inaspettato impatto destabilizzante sulla società. Negli ultimi dodici anni il numero di utenti internet ha avuto un’impennata ed è passato da 620mila a 338 milioni, facendo della popolazione cinese online la più numerosa e la più in rapida crescita di tutto il mondo. La Cina ha sposato queste sue nuove capacità digitali (la compagnia nazionale delle telecomunicazioni ogni mese ha oltre 700mila nuovi utenti a banda larga) ma al tempo stesso il governo autoritario ha tentato di controllarle. Ha fortificato il suo “grande firewall” bloccando selettivamente l’accesso a Google, YouTube e Twitter. Ha schierato una speciale forza di polizia del web, con decine di migliaia di agenti, per investigare e stroncare il dissenso politico online. Ha ingaggiato un reggimento di “commentatori segreti” che postano sul web elogi dello stato. E in luglio ha cominciato a sviluppare il Green Dam Youth Escort, un software di censura che può essere pre-installato nei nuovi pc.
Tuttavia, man mano che la Cina si è arricchita e i giovani hanno acquisito familiarità con gli strumenti dell’era digitale, internet è emersa come una forza incontrollabile. Si trovano ovunque tracce del suo impatto: nei club grandi come hangar e aperti 24 ore su 24 dove centinaia di adolescenti passano ore con le loro cuffie davanti a monitor massicci e luminosi; in qq.com, il labirintico social network e piattaforma instant message con i suoi 480 milioni di account attivi; e nella proliferazione del software che aiuta gli utenti ad aggirare i firewall di stato. I genitori da che mondo è mondo si sono sempre preoccupati dell’impatto pernicioso della cultura giovanile, che si tratti di fumetti, rock and roll o videogame. Ma nella società cinese, rigida e ipercompetitiva, l’esplosione internet rappresenta più di un disturbo disciplinare. È percepita come una minaccia esistenziale. E questo aiuta a capire perché la cura dei ragazzini affetti da una presunta dipendenza da internet sia diventata un’ossessione. Le storie orrorifiche, che nel 2002 cominciano ad apparire sulla stampa di stato, innescano il panico: un incendio in un internet caffè clandestino uccide 25 persone impegnate in una sessione di giochi lunga tutta la notte; un gaming addict di Chengdu muore dopo aver giocato a Legend of Mir 2 per 20 ore filate in un net club; due ragazzini di Chongqing, sfiniti dopo due giorni di gioco online, svengono lungo i binari della ferrovia e vengono uccisi da un treno; un ragazzo di Qinguyan massacra il padre che lo ha sgridato perché sta troppo su internet; un tredicenne di Tianjir, al termine di una sessione di 36 ore di World of Warcraft, si butta giù dal tetto dell’edificio in cui vive (24 piani) augurandosi «di potersi unire agli eroi del gioco», così un giornale sintetizza il biglietto d’addio lasciato dal ragazzino.
Il governo cinese reagisce subito e con forza. Agli adolescenti vengono ufficialmente vietati i web caffè, un editto che la polizia fa applicare con incursioni frequenti. Il governo non concede più licenze per caffè nuovi e chiude migliaia di locali illegali, 16mila nel 2004. Tre anni fa ha cominciato a imporre alle ditte produttrici di giochi di sviluppare dei sistemi anti-dipendenza, che limitino a tre ore il tempo massimo di gioco. E un anno fa i funzionari governativi hanno iniziato a parlare della possibilità che la dipendenza da internet venga classificata come un disturbo clinico. Ma l’iniziativa più clamorosa è senz’altro il campo di addestramento. L’ospedale generale militare di Pechino istituisce il primo centro del paese nel 2004. È una creazione di Tao Ran, ricercatore militare e colonnello dell’Esercito di liberazione popolare. Tao, un uomo compatto dal viso vivace, già rinomato per le sue terapie per tossicodipendenti, apre il campo ai margini della città, in un complesso militare fortificato. La struttura, che impiega un misto di terapia, training psicologico e farmaci, ha finora avuto in cura 5000 persone, quasi tutti adolescenti. Il campo di Tao si rivela molto efficace guadagnandosi il plauso internazionale (nel 2007 il New York Times lo ha descritto come “la linea del fronte nella battaglia della Cina”). Nel giro di poco tempo centri analoghi cominciano a spuntare in tutta l’Asia: Corea del Sud, Thailandia e Vietnam.
La famiglia di Deng Senshan vive in un quadrilocale spazioso nel centro del distretto di Ziyuan, 70mila abitanti, non lontano dal confine con il Vietnam, circondato da fiumi e colline lussureggianti di bambù. Lui comincia a giocare online a 11 anni. All’inizio è solo una cosa che fa quando non è a nuotare o non sogna di diventare il futuro Yao Ming. È un ragazzino tranquillo con i capelli neri dritti in testa, occhiali cerchiati di metallo, ha pagelle brillanti che riempiono d’orgoglio i suoi genitori. La fine arriva a 13 anni, nel momento in cui si tuffa in World of Warcraft e in altri giochi online in multiplayer. Quando non è a scuola, gioca sul computer in camera sua o in uno dei tanti web caffè (una dozzina) sparsi per la città. Talvolta salta i pasti e non dorme. «Uscivo di notte a cercarlo», racconta ora Deng Fei. «Mi ci volevano delle ore per trovarlo, in uno dei locali». Deng Senshan mette su peso e i suoi voti hanno un tracollo: un cambiamento che preoccuperebbe qualsiasi genitore ma è particolarmente sentito in Cina, dove uno scivolone accademico può voler dire la mancata ammissione a un liceo di élite. I genitori tentano di ricondurlo alla normalità trasferendo il pc nella loro stanza, riducendogli la paghetta e comprandogli un tapis roulant. Non funziona. «Ci furono un sacco di discussioni», dice ora Zhou Juan. I genitori di Deng Senshan si chiedono se il figlio non soffra di dipendenza. Forse è solo una fase di passaggio, come quando i ragazzini hanno la fissa delle ragazze o si fanno prendere da un programma televisivo. Forse è stressato dalla scuola e sta usando internet per scaricare la tensione.
Poi, una sera Deng Fei vede in televisione la pubblicità del centro di addestramento di Qihang. Mostra una famiglia sorridente. La struttura appare valida, infonde persino fiducia. E sembra sicura; l’annuncio è trasmesso dalla stazione tv governativa locale, e questo dà un imprimatur ufficiale. Il giorno seguente Deng Fei parla a suo figlio del campo; a lui l’idea non piace affatto. Ma Deng Fei non molla. Quando la scuola finisce, e comincia l’estate, chiama il campo e di nascosto prenota un posto per il ragazzo. «Mi hanno detto di venire pure, che si sarebbero presi cura di lui», racconta. Un paio di settimane dopo, Deng Fei carica l’auto e porta la famiglia al mare, per un’ultima gita. Seduto sulla sabbia calda guarda il figlio nuotare nel mare della Cina meridionale. Quando Deng Senshan va a salvare una donna che si sta dibattendo tra le onde, riportandola a riva, il padre del ragazzo è pieno d’orgoglio: suo figlio, l’eroe. Zhou Juan scatta una foto a Deng Senshan nel suo costume da bagno nero. In essa appare con i capelli ancora bagnati, avvolto in un asciugamano azzurro, un’espressione stoica sul viso rotondo, ignaro di essere sul punto di venire spedito al campo, che è lì vicino. Ma quella sera in albergo, gli danno la notizia. «Ti farà bene», gli assicura Deng Fei. Uno dei primi segnali che le cose sono sfuggite di mano nei campi cinesi è l’emergere della figura di zio Yang (Yang Yongxin), uno psichiatra che nel 2006 apre un centro di cura all’interno di un ospedale pubblico, nella provincia orientale di Shandong. Il suo campo è uno delle centinaia spuntati in Cina. Molti di questi sono privi di controllo e di credenziali, e si basano su un’accozzaglia di terapie: antidepressivi, assistenza psicologica, esercizio fisico intenso (uno ha spedito i suoi giovani pazienti a fare un trekking di 850 chilometri nella Mongolia interna). Quello che era partito come un approccio degno di stima e disciplinato si è trasformato in un affare in rapida crescita, pieno di imprenditori improvvisati.
La gamma di terapie di Yang comprende l’elettrochoc, noto come xing nao o “risveglio cerebrale”. Alle mani e alle tempie dei suoi pazienti vengono attaccati gli elettrodi, e poi si fanno partire scariche di 1-5 milliampere. Una ragazza ricorda di aver indossato una museruola che le impediva di morsicarsi la lingua. Alcune sedute vanno avanti, a quanto pare, addirittura per mezz’ora; di tanto in tanto provocano, si dice, delle ustioni. In un’intervista a un giornale locale Yang difende il suo metodo: «Non causa danni al cervello, assolutamente. Ma è doloroso, molto doloroso!». Yang non è uno psicoterapeuta, e non ha alcuna autorizzazione a praticare l’elettrochoc. Ma non ha importanza. Sostiene di sapere quello che fa. «Ripulisce la mente», assicura. Si fa pagare 650 euro al mese, una cifra non indifferente, in un paese in cui il salario medio mensile è di circa 290 euro. Eppure 3000 genitori disperati gli mandano i figli, per un periodo di quattro mesi. I media salutano Yang come “un esperto nazionale di dipendenza dal web”. A un certo punto i metodi di Yang vengono condannati come eccessivi (in luglio le autorità cinesi vietano l’utilizzo dell’elettrochoc, sostenendo che sono necessarie ulteriori indagini) eppure i servizi di Yang si dice continuino a essere molto richiesti. Nel frattempo la retorica su internet si fa ancora più isterica: la rete non è solo un rischio per la salute pubblica, è anche una minaccia nei confronti della sicurezza nazionale. Nel 2006 il comitato centrale della Lega della Gioventù Comunista esprime la sua preoccupazione su «un grave problema sociale che potrebbe minacciare il futuro della nazione» e definisce gli internet caffè «incubatori di criminalità giovanile e depravazione». Stime ufficiali addebitano a internet la responsabilità dell’80 per cento degli abbandoni scolastici e la maggior parte dei crimini commessi da ragazzi.
Sembra che si possa dare a internet la colpa di quasi tutto. In settembre il vicedirettore del settore sportivo per la pallavolo dichiara che la prestazione scadente della squadra nazionale femminile è il risultato del “troppo tempo passato online”. Perfino Tao Ran, il padre del primo campo di addestramento, comincia a preoccuparsi: forse la gente sta reagendo in modo eccessivo. «Ricevo telefonate da genitori che pensano che i loro figli abbiano una dipendenza da internet solo perché li vedono seduti di fronte a un computer», dice. «C’è un’ipersensibilità nei confronti della dipendenza, e il clima non fa che peggiorare». Non è l’unico a preoccuparsi. «Io l’ho detto al governo, che bisogna fermare questa cosa», spiega Tao Hongkai, pedagogista presso la Huazhong Normal University. Lui è convinto che le dipendenze vadano curate, ma con la talk therapy. «I genitori spendono un mucchio di soldi per mandare i loro ragazzi in quei campi», dice. «Ho riferito al governo che la faccenda sta andando fuori controllo, ma loro non hanno fatto nulla». Il Qihang Salvation Training Camp ha aperto nel maggio 2009, giusto in tempo per le vacanze estive. I ragazzini che ci sono stati ne parlano come di un’esperienza spaventosa. Il suo regime di cura si basa su faticosissime esercitazioni militari, che cominciano al sorgere del sole con un fischio stridulo e talvolta finiscono dopo mezzanotte. Chi non riesce a fare tutti i giri di corsa o le flessioni sulle braccia viene pestato. Si sente gridare in continuazione. Un ragazzino di 12 anni, che i genitori hanno iscritto perché giocava troppo con il Game Boy, racconta di aver passato la maggior parte del tempo a sforzarsi di sopravvivere: «Se qualcuno dice che non aveva paura, è un bugiardo».
I compagni di campo di Deng Senshan ci aiutano ora a ricostruire il suo primo e unico giorno a Qihang. Come tutti i nuovi arrivati comincia la sua permanenza con una visita alla “stanza del confino”, all’ultimo piano della struttura, dove gli dicono di mettersi faccia al muro. Quando rifiuta, lo colpiscono. «L’ho sentito gridare», racconta una tredicenne spedita lì perché marinava la scuola per chattare. «Ma non ci ho fatto troppo caso, perché era normale sentire delle urla». Quando gli altri partecipanti vengono mandati a letto, verso le nove di sera, Deng Senshan insieme ad altri tre novellini è costretto a fare giri di corsa sul campo da basket, alla luce dei riflettori. Non resiste a lungo; dopo una trentina di giri inciampa e cade. Un operatore lo trascina verso un pennone lì vicino e lo colpisce con la gamba di una sedia di legno, che si spezza. Deng Senshan lo implora di smetterla, si rialza a fatica e ricomincia a correre. A metà del giro crolla di nuovo. «Allora ti vuoi decidere a correre?», grida l’istruttore, arrivando con uno sgabello di plastica, che cala con violenza sul ragazzo. Deng Senshan si affloscia sul cemento e non si muove più. È presente almeno una mezza dozzina di testimoni. Una guardia della security vede tutto dalla minuscola stanza in cui vive, ai margini dell’area, capisce che il ragazzo è nei guai, è scioccato: «Ho detto a mia moglie: “Se sopravvive a questa notte, è già tanto”».
Dopo il pestaggio, Deng Senshan viene trasportato e depositato sulla sua branda. Trema, grida «Mi stanno uccidendo», sanguina dalla bocca, dalle orecchie, dagli occhi e dal naso. Gli operatori lo lasciano lì per ore, prima di decidersi a portarlo in ospedale. Alle tre del mattino, quattordici ore dopo il suo arrivo al campo, viene dichiarato morto. È un mattino di settembre, il giorno in cui Deng Senshan avrebbe dovuto cominciare il liceo. I suoi genitori camminano nelle strade affollate, tornano nel loro appartamento luminoso al terzo piano. È passato un mese dalla morte del figlio. Mentre raccontano la loro storia, Zhou Juan piange coprendosi il viso con le mani e Deng Fei giocherella con le chiavi. Di recente Deng Fei è giunto a una conclusione: suo figlio non era un drogato. «Non fumava, non beveva. Internet probabilmente era solo il suo modo di sfogarsi», dice, fissandosi i piedi. «L’abbiamo capito solo adesso. Non era una vera dipendenza. Era la sua via di fuga dalla pressione della sua carriera di studente». Zhou Juan alza la testa. «Non è che poi giocasse così tanto», ammette. Per la morte di Deng Senshan sono finite in carcere una dozzina e più di persone, e in seguito è venuto fuori che il fondatore del campo non ha mai fatto le scuole superiori, figuriamoci l’università. Deng Fei ha saputo anche che quello spot in tv era una truffa: quelle famiglie sorridenti erano composte in realtà da attori pagati. La morte di Deng Senshan è stata la prima di una piccola serie di racconti terrificanti. Pochi giorni dopo il suo assassinio, gli operatori di un campo nella provincia di Hubei hanno picchiato a morte un quattordicenne. Sei giorni dopo, un adolescente è finito in terapia intensiva in seguito alle ferite riportate in un altro campo. Queste cronache spingono a chiedere al governo provvedimenti energici. «Nessuno regola quel settore», dice Tao Ran, che è diventato uno dei principali sostenitori di una maggiore sorveglianza. Già alla fine del 2008 Tao, nella speranza di eliminare incertezza e confusione, ha cominciato a rendere pubbliche quelle che secondo lui sono le caratteristiche del vero drogato da internet: gioca online almeno sei ore al giorno per tre mesi di fila, avverte un senso di profondo smarrimento emotivo e perfino fisico quando è scollegato dalla rete. Tao fa pressioni sul governo cinese affinché riconosca ufficialmente la condizione come una malattia mentale. Ma lotta contro i mulini a vento. Si ritiene che i campi in Cina siano 3-400.
Nel frattempo il governo locale ha cominciato ad affrontare le critiche, per la parte avuta nel disastro. Gli spot televisivi del campo erano andati in onda sulle reti statali e la struttura si trovava all’interno di una scuola finanziata dallo stato. I funzionari del governo reagiscono cercando di mettere a tacere la vicenda di Deng Senshan. Un giornalista viene licenziato dopo aver pubblicato su un giornale locale una serie di articoli dedicati al caso. Un portavoce ha riferito che il suo operato aveva provocato la collera di funzionari di alto grado, mettendo in luce una “debolezza”. Risulta che successivamente sia stato licenziato un altro giornalista, autore di un reportage sulla vicenda. La tattica usuale del pugno di ferro non è stata però in grado di contenere il disastro di immagine. Il governo alla fine ha indennizzato Deng Fei e Zhou Juan per la morte del figlio (un riconoscimento, parrebbe, del ruolo indiretto del governo locale nell’assassinio), anche se i funzionari si rifiutano di porgere le scuse richieste da Deng Fei. In novembre il ministero della Sanità cinese ha tratteggiato le linee-guida per i campi di addestramento, mettendo al bando le punizioni fisiche, “la chirurgia distruttiva” e il contenimento forzato. Tao Ran descrive questa politica come un primo passo promettente; il pedagogista Tao Hongkai la liquida come “riduzione del danno”. Non potrà certo fare nulla per Deng Senshan. La sua vecchia stanza ora è quasi vuota. La finestra è adornata da tende bianche con una scritta: “Sempre insieme”. Il tapis roulant è in un angolo, piegato. Un tavolino con bastoncini di incenso accesi e qualche foto funge da umile tempietto. La maggior parte delle sue cose è stata bruciata: una tradizione regionale, per congedarsi dai defunti. In camera loro però Deng Fei e Zhou Juan conservano un altro oggetto che apparteneva al figlio: il computer. Sta su una scrivania, spento, con lo schermo nero. Prima che lo portassero al campo, Deng Senshan aveva salvato sull’hard disk alcune foto di famiglia. Asciugandosi una lacrima, Zhou Juan parla del computer non come un simbolo di dipendenza o di paura, ma come di un deposito di memorie che saranno sempre a portata di mano, qualunque cosa accada. Deng Senshan le aveva detto così, ricorda: «Il computer è sicuro, mamma».
[fonte: Wired.it]