Che cosa rimarrà del nostro sistema produttivo? Forse niente di niente. Fra le aziende che chiudono, quelle che delocalizzano e quelle che sono vendute ai grandi gruppi stranieri, stiamo diventando un deserto industriale. La situazione, nonostante la sua drammaticità, sembra non preoccupare. Il nostro tessuto produttivo si affievolisce sempre di più e noi stiamo perdendo posti di lavoro, conoscenze, ricchezza. In Italia non esiste più la grande industria chimica (nonostante che nel 1963 Giulio Natta vinse il premio Nobel per la chimica), né quella siderurgica, né quella informatica (Olivetti è ormai scomparsa), né quella degli elettrodomestici (Indesit e Merloni non ci sono più).
Molte aziende pur esistendo hanno delocalizzato:
Fiat ha stabilimenti in Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina.
Geox ha delocalizzato in Brasile, Cina e Vietnam; su circa 30.000 lavoratori solo 2000 sono Italiani.
Dainese ha stabilimenti in Turchia.
Bialetti produce in Cina.
Rossignol ha portato la produzione in Romania.
Omsa produce in Serbia.
Benetton ha stabilimenti in Croazia.
Calzedonia ha delocalizzato in Bulgaria.
Stefanel ha preferito la Croazia.
Poi ci sono le aziende che non sono più italiane.
Bulgari appartiene al colosso francese Louis Vuitton Moet Hennesy (Lvmh).
Emilio Pucci, nel 2000, anche questo marchio è passato sotto il controllo di Lvmh.
Ferré, a inizio febbraio 2011, è stato ceduto al Paris group di Dubai.
Fendi, nel 1999 il marchio fondato dalle cinque sorelle romane, è stata venduta a Lvmh di Bernard Arnault.
Gucci e Bottega Veneta appartengono al gruppo francese Ppr (Pinault -Printemps -Redout).
Valentino è passato qualche anno fa dal gruppo Marzotto al fondo di private equity Permira Holdings Limited (Phl), con base a Guernsey, nelle isole del canale britannico.
Prada, a gennaio 2011, si è quotata alla Borsa di Hong Kong.
Ducati è stata acquistata da Audi.
Bnl è stata acquistata da BNP Paribas.
Cariparma è diventata Crédit Agricole.
Tutto questo, porta verso una dequalificazione del nostro capitale umano. Senza la grande impresa è difficile che si riesca a fare ricerca, innovazione, sviluppo e ad investire in formazione.
Se poi consideriamo che il nostro Paese ha pochi laureati e diplomati, e che è altissimo l’abbandono scolastico, la situazione appare ancora più drammatica. Il nostro spread con la Germania non è preoccupante solo per quanto riguarda i titoli di stato. Nell’istruzione la situazione è ancora più inquietante. In Italia (dati 2009) solo il 15% delle persone tra i 25 e i 64 anni è laureata, contro il 26% della Germania. Mentre i diplomati sono poco meno del 40% contro il 59%. Le persone che hanno completato solo la scuola dell’obbligo sono quasi il 46 per cento in Italia contro il 15% della Germania.
Anche a prescindere dalla recessione attuale, dalle misure prese dal governo Monti, dalla rigidità della Merkel, dallo spread, dalla crisi dell’euro e dei debiti sovrani, da ogni altro fattore che si è sviluppato dal 2008 ad oggi, la realtà è che l’Italia sta diventando un Paese periferico, marginale, subalterno. Bisogna uscire dalla crisi, ma è indispensabile ricostruire una politica industriale e educativa che ci riporti verso un nuovo Rinascimento. In fin dei conti siamo sempre “Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”. Speriamo che basti.