Appena riconfermato presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha detto: “the best is yet to come”. Il meglio deve ancora venire: inguaribilmente cinematografici, questi americani. Eppure, questa tendenza a spettacolarizzare tutto, politica compresa, è frutto di un indiscutibile valore aggiunto: una capacità di immaginare e immaginarsi in modo continuamente diverso e perfezionabile che non ha eguali nel mondo.
L’America ha dimostrato di sapersi rinnovare con la prima storica elezione di Obama nel 2008, dopo una fase repubblicana segnata dal doppio mandato di Bush junior. Oggi, all’indomani di un’elezione tenutasi in un clima di grande incertezza economica e sociale, gli americani non hanno ceduto al fascino di una proposta di rinnovamento connotata in senso ben diverso: un ritorno alla tradizione in senso punitivo rispetto all’operato di Obama. Non un reale impulso innovatore, bensì una conversione tradizionalista.
Beppe Severgnini ha osservato come gli elettori statunitensi abbiano preferito l’usato garantito, rispetto ad un salto nel buio più completo. Ma non solo. L’intuito americano per il suo perfezionabile destino – da costruire nel senso della felicità, come affermarono i padri fondatori – non ha tradito Obama. Nel corso della faticosa corsa alla casa bianca, conclusasi il 6 novembre con una grande festa nella natia Chicago, diversi fattori hanno giocato a favore del Presidente uscente.
La campagna elettorale di Mitt Romney, che ha comunque perso di misura, ha sofferto delle numerose dichiarazioni integraliste rilasciate dal candidato presidente e dai collaboratori, ma soprattutto di un carisma inferiore rispetto al candidato democratico. Obama – primo presidente nero della storia americana – è ormai un’icona della nostra epoca; gode dell’appoggio di una first lady altrettanto abile nella vita pubblica e presenta un’immagine moderna, di uomo politico ma anche di marito e di padre, che suscita immediata immedesimazione. Chi non si è emozionato guardando la foto, presto diffusa in tutto il mondo, del presidente appena rieletto mentre abbraccia Michelle?
Obama è parso provato da questi quattro anni alla casa bianca, eppure ha affrontato la lunga campagna elettorale con grande impegno e coinvolgimento. Non si trascuri che gli Stati Uniti stanno attraversando la crisi più grave dopo la grande depressione degli anni ’30: nonostante ad Obama sia toccato il non invidiabile compito di gestirla, egli è riuscito a conservare un margine di credibilità tale per cui il 50 per cento degli elettori ha confermato la propria fiducia in lui. Per un politico, una riconferma è una sfida ben più grande rispetto ad una prima investitura.
Il grande fascino di Obama risiede senza dubbio nella sua capacità di far emergere le componenti più rappresentative dell’America giovane e dinamica, contrapposta ad una proposta, quella di Romney e dei repubblicani, conservatrice in termini militari e fiscali, ma anche sociali e razziali. La riforma sanitaria è stata al centro di polemiche particolarmente accese: nonostante molti americani siano in disaccordo rispetto al profilo, anche minimo, del welfare state, Obama è stato premiato per il coraggio di aver portato a compimento un progetto da sempre visto come irrealizzabile negli Stati Uniti, soprattutto in un periodo di forte crisi economica e di crescita delle spese militari. Naturalmente la questione sociale americana non è risolta; né si può negare che le truppe a stelle e strisce siano ancora sparse ovunque nel globo, Afghanistan in primo luogo, e che presumibilmente altre verranno presto stanziate presso un nuovo fronte (Siria, Iran?).
Eppure Obama, contrapposto a Romney, rappresenta il nuovo. Ha vinto non Obama, bensì l’America di Obama: i gruppi razziali non WASP (white anglosaxon protestants), le donne, gli abitanti delle grandi città delle due coste, i giovani, i più poveri ma anche un’elite di benestanti progressisti. Un’America inedita e orientata verso il futuro, di cui Romney e i suoi spin-doctors non si erano occupati in alcun modo.