Miniera di sale di Wieliczka
Siete mai stati in un mondo sotterraneo? Come i misteriosi abitanti di Atlantide, potreste vivere il fascino di questo segreto se vi trovate nei pressi della miniera di Wieliczka, un Patrimonio Unesco situato a 13 km da Cracovia. Lì ad attendervi ci sono fantastiche camere scolpite in sale, oscuri e vitrei laghi sotterranei,come in un racconto di Tolkien, costruzioni di carpenteria e sculture in sale. Ci sono corridoi che si estendono per chilometri, e si arriva a una profondità di circa 135 metri. Tutto il percorso parte da un Pozzo, chiamato Daniłowicz.
Ma procediamo con ordine: narra la leggenda che la principessa ungherese Kinga (futura sposa del principe di Cracovia) perse il suo anello di fidanzamento; arrivata in città diede ordine di scavare un pozzo, fu così che venne scoperto un giacimento di salgemma dove, nel primo minerale che estrassero, c’era l’anello. Da questa leggenda nasce anche l’odierna devozione dei minatori a Kinga, che fu poi addirittura canonizzata da Giovanni Paolo II.
Si scende sottoterra, dicevamo. E non di poco, i miei piedi infatti contano ben 378 gradini (nove livelli) che mi portano dal pozzo di Danilowicz fino a 64 metri di profondità, e la sensazione è proprio quella di venir inghiottita in un mondo surreale, fatto di laghi sotterranei dalle verdi acque, stanze abbellite con bassorilievi, cappelle, altari, immagini, statue religiose e laiche. Mi colpisce tantissimo la bellissima Sala Principale, meglio conosciuta anche come Cattedrale di Sale, con sculture, altari e bassorilievi tutti rigorosamente fatti del prezioso minerale.
Osservo incantata le lampade di cristallo che illuminano il pavimento creando un gioco di colori e riflessi davvero incredibile: la sala, che ospita la cappella dove sono conservate le reliquie della Santa Kinga di cui sopra, si trova ben 101 metri sotto terra! Raccontano che qui viene celebrata persino la messa, hanno luogo cerimonie e concerti (l’acustica della miniera è perfetta).
Rimango colpita anche dalla collezione di strumenti minerari, utensili di grandissimo valore storico nel ricostruire la vita dell’epoca, quando il sale era considerato ancora ciò che provvedeva al mantenimento di una famiglia e cioè un “salario”. Qui trovo carrelli, macchinari, utensili e meccanismi di trasmissione a trazione animale, tutti raccolti per maggiore comodità di visita nel Museo delle Saline Cracoviane.
Ma non è finita qui: ad una profondità di 135 m, nella grotta del lago Wessel, si trova anche un Centro di Cura e Riabilitazione, destinato a persone con problemi di allergia e di malattie delle vie respiratorie. Insomma questa visita alle miniere di sale mi ha profondamente colpita e mi metto fra le fila dei milioni di visitatori che ci vengono ogni anno, fra i quali anche teste coronate di tutta Europa, in passato artisti come Goethe, oggi presidenti come Clinton e Bush, fino allo stesso Giovanni Paolo II.
Il quartiere ebraico di Cracovia
A Cracovia non si può non visitare il quartiere ebraico. Lo si raggiunge con una piacevole passeggiata nel quartiere di Kazimierz, dove rimane quel che esisteva di un quartiere signorile e ben curato, abitato dai professionisti della città. Qui, prima della deportazione nel ghetto, abitavano 15mila persone, ora la comunità ne conta appena duecento e la guida ci racconta che si respira da poco un’atmosfera più serena dopo anni di silenzioso dolore.
Il quartiere sta riprendendo vita, e dal viavai allegro e colorato che posso osservare, è diventato meta di artisti e bohémien. È anche il quartiere degli studenti, che qui si ritrovano a Plac Novy, sotto le arcate dell’antico mercato, a mangiare zapiekanka (specie di ciabatte farcite), tra fruttivendoli, fioristi, banchi di gioielli e paccottiglia ex sovietica. C’è anche una sinagoga ancora attiva, quella di Remuh che vale una visita, così come alle sue spalle, il cimitero ebraico con sepolture sovrapposte risalenti ad un periodo compreso fra il 1500 e il 1800, che mi ricorda quello di Praga.
Auschwitz
Dopo l’allegria della città c’è un’ altra direzione che mi accingo ad intraprendere, sicuramente meno gioiosa ma per certi versi necessaria per poter godere appieno la serenità presente, mi accingo cioè ad affrontare una dimensione della Polonia che potrebbe sembrare dimenticata dal tempo ma che non devo e non voglio dimenticare: Auschwitz. E dunque prendo un pulmann alla volta di Oswecim, nome originale del campo di sterminio.
Come se incorniciasse i miei pensieri il cielo è diventato improvvisamente grigissimo e una cappa plumbeo avvolge l’ambiente intorno. Ripenso ai filmati o ai documentari che spesso si vedono sul luogo che sto per visitare, un luogo quasi maledetto o dimenticato da Dio e cerco di preparare la mente e gli occhi a quanto sto andando a vedere. Da una parte, in me, c’è una specie di rigetto, un rifiuto nell’affrontare una parte della Storia di cui, mi sento di dire fortunatamente, non facevo parte, ma che mi pesa addosso come un mantello caparbio di cupa tristezza: le colpe dei padri che gravano sulle esili spalle dei figli. Dall’altra parte vado in quei luoghi forse proprio per allontanare, come in un sorta di rito apotropaico, il timore della fine e della morte.
Ad Auschwitz anche la guida che ci farà visitare il campo appare cupa e angosciata. All’inzio provo quasi un moto di antipatia nei suoi confronti, poi invece vedo che manifesta dei sentimenti e delle emozioni molto forti mentre abbassa la voce e ci sussurra nell’auricolare le spiegazioni sulle cose che stiamo vedendo, e allora la sento immediatamente vicina, reale, concreta. È paradossalmente piena di vita mentre racconta quel calvario di morti sciocche e inutili, avvenute in questo luogo, eredità sgomenta con cui l’uomo dovrà fare i conti ancora per lunghissimo tempo.
Nonostante le spiegazioni nell’auricolare, tutt’intorno stagna come un silenzio immobile, che gela i pensieri e l’animo, e ho quasi un sussulto quando mi rendo conto di stare passando sotto la famosa scritta in ferro: Arbeit mach frei, il lavoro rende liberi. Un brivido mi corre lungo la schiena e penso alle migliaia di persone che, con false speranze di sopravvivenza, passavano qui sotto, e la voce mi si ferma nella gola.
Immersa in questi pensieri quasi non mi accorgo che tutt’intorno siamo circondati da pali e filo spinato. Entriamo poi in altri ambienti e numerose stanze, ora sono spoglie e silenziose ma rimangono delle tragiche tracce dell’orrore che hanno contenuto: mucchi di capelli accatastati in un angolo, centinaia di scarpe e di indumenti conservati di molti bambini che non hanno potuto diventare adulti.
È una sensazione strana, come se cuore e cervello fossero staccati l’uno dall’altro e procedo un po’ come un’automa e sono stupita, io per prima, dalla mia apparente freddezza. Poi capisco che, in realtà, quello che mi accade è solo una forma di difesa e che quello che ho visto oggi tornerà nella mia mente e nel mio sguardo per molte volte ancora e persino adesso, mentre scrivo, dentro di me scaturiscono pensieri nuovi ed emozioni indescrivibili, una dietro l’altra. Auschwitz ha cambiato e cambierà per sempre le vite di chi lo visiterà, ma ci permetterà di compiere, allo stesso tempo, anche una grandissima riflessione: la forza della vita, della sopravvivenza, è più forte di qualsiasi comportamento umano delirante e autodistruttivo e solo l’amore per i familiari, per gli amici, per una qualsiasi creatura che, con la sua esistenza, riesca a farci uscire dal nostro misero individualismo e a cui saremo in grado di porgere la mano, ci potrà dare la forza non di cancellare l’orrore ma di costruire un altro futuro.
Il Sahara del Baltico
Un clima mediterraneo, dove in estate l’acqua del mare raggiunge i 22 gradi e in spiaggia non si è costretti a rifugiarsi nelle “hooded beach chair”, le sedie in vimini con baldacchino frangivento. Attorno, paesini, boschi popolati di alci e daini, paludi e fari su cui volteggiano aquile dalla lunga piuma bianca. Turchia? Grecia? No, siamo a pochi km dal confine con la Russia, nella penisola di Curlandia, in Lituania. Qui una lingua di sabbia bianca di un centinaio di chilometri punteggia altissime dune di pinete e discese a picco sul mare, il tutto, grazie a Dio, patrimonio dell’Unesco e dunque non solo preservato ma anche salvaguardato nelle sue peculiarità naturalistiche.
Penso che, per una volta, il temibile KGB ha fatto qualcosa di buono e ci ha consegnato un santuario della natura, rimasto inaccessibile per mezzo secolo e ci permette di entrare in un luogo nel quale, fino a qualche decennio fa, si visitava solo con il permesso dei servizi segreti russi o del Capo di Stato, come fecero nell’agosto del 1965 Jean Paul Sartre e Simone De Beauvoir, autorizzati da Krusciov. Mentre Thomas Mann, negli anni Trenta, passava le vacanze in una fascinosa dimora ora trasformata in museo.
Passeggio fra queste dune e mi ritrovo in un mondo onirico, umido e denso, con le case ottocentesche in legno che si specchiano nell’acqua. Lungo il percorso mi imbatto nel bosco della ‘collina delle streghe‘, una originale raccolta di sculture dai volti spaventosi incisi nel legno. Sono figure scolpite dai contadini del luogo che così testimoniano il loro passato di tradizioni popolari molto diffuse in queste regioni e il cui confine fra antico politeismo e odierno monoteismo appare molto labile. Andando verso Sud il paesaggio si fa poi sempre più aspro e ormai le dune di sabbia si susseguono sempre più imponenti e alte fino a gettarsi a capofitto nel mare. Arrivo a Nida, l’ultimo paesino prima del confine russo: qui regna un ordine silenzioso con le tipiche case dell’estremo Est europeo, le Dacie, dipinte a colori vivaci. In questo vorticare di colori che abbacina lo sguardo, mi sento un poco sperduta ma anche, inspiegabilmente, accolta: tutt’intorno, come un deserto di inimmaginabile splendore, le dune danzano allo stormire del vento.