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Esiste un grado zero della scrittura architettonica? Bruno Zevi non aveva dubbi: la storia dell’architettura classica, normativa per definizione, è piena d’eccezioni; il linguaggio architettonico, fondato per secoli su regole e paradigmi, con l’epoca moderna ha saputo svincolarsi da ogni modello e diventare democratico, poetico, libero. È tornato al grado zero.

Esiste una linea rossa che, secondo Zevi, unisce il lavoro di Wright, Utzon, Saarinen, passando per il momento solenne, il punto di non ritorno: la Cappella di Ronchamp di Le Corbusier. L’architetto più normativo della prima metà del secolo si lascia andare in un gesto libero, privo di vincoli, espressionista, scultoreo. Un episodio che segna la storia dell’architettura.

Qui entra in scena Frank O. Gehry, l’architetto californiano che dalla fine degli anni ’70 incarna la libertà più assoluta, scevra d’ogni norma europea, pedante e autoreferenziale. Un’architettura che comincia dalla propria casa a Santa Monica, costruita con materiali di scarto, che prosegue con le opere degli anni ’80, destrutturate e scomposte, per giungere all’episodio dirompente, il nuovo punto di non ritorno: il progetto del Guggenheim Museum di Bilbao, un’opera colossale, a tutto tondo, gestuale. Da questo momento Bruno Zevi riconosce in Gehry il punto d’arrivo del grado zero della scrittura architettonica, da questo episodio prende avvio la mostra allestita alla Triennale di Milano fino al 10 Gennaio 2010: Frank O. Gehry dal 1997.

Si tratta della prima esposizione dedicata all’architetto americano che riunisce i progetti realizzati a partire dall’importante svolta stilistica del museo Guggenheim di Bilbao, aperto al pubblico nel ‘97. La mostra, curata da Germano Celant, realizzata in collaborazione con Frank O. Gehry e Gehry Partners LLP, riunisce progetti inediti, realizzati o in cantiere, che da quella data scandiscono il percorso dell’architetto, ormai pervaso da una volontà spaziale inedita e riconoscibile.

Le architetture sono raccontate attraverso disegni, modelli, fotografie e filmati che illustrano le diverse fasi del progetto. Notevole rilievo è dato all’impatto urbanistico degli interventi, un approccio che spesso manca alle analisi dedicate a Gehry. È l’apporto tecnologico l’altro protagonista dell’esposizione: il gesto architettonico esuberante e libero ha spinto l’architetto verso la sperimentazione di nuovi materiali, ha obbligato ad ardite scelte strutturali, ha favorito importanti collaborazioni (tra cui quella con l’italiana Permasteelisa, leader mondiale delle facciate in vetro). Soprattutto ha cambiato il modo d’intendere il progetto: Gehry ha inaugurato, attraverso l’uso del software aeronautico Catia, un nuovo modo di procedere nell’ideazione, progettazione e ottimizzazione del processo di creazione architettonica.

Un percorso in evoluzione da dieci anni, dall’apertura del museo di Bilbao, gigantesca scultura in pannelli di titanio e pietra calcarea, proseguito coerente nelle opere successive. Nel Walt Disney Concert Hall a Los Angeles, inaugurato nel 2003, il gesto architettonico è plastico, esuberante, barocco, organizzato per grandi masse in pannelli d’acciaio inossidabile che celano al proprio interno una sala da concerto, diretta espressione di parametri acustici. Nella Art Gallery of Ontario a Toronto, completata nel 2008, un progetto di ristrutturazione diventa l’occasione per stravolgere la facciata classica attraverso l’aggiunta di una seconda pelle in vetro ricurvo e legno d’abete, lo spazio interno è dinamizzato da una scala a spirale che collega la Walzer Court fino alla copertura in vetro.

Un’architettura plastica, fremente, in movimento, lontana dalla scultura propriamente detta perché il protagonista rimane lo spazio. Che si tratti dell’esterno, in dialogo costante con la città e l’atmosfera, o che si tratti dell’interno, dilatato e deforme, le architetture di Gehry rappresentano sempre un’eccezione, una rottura, un momento di tensione. Anche quando sono rispettose verso le forme della città, come dimostra la Cinémathèque di Parigi, rivendicano la propria eccezione verso il giardino.

C’è molto della cultura pop in Frank O. Gehry. In lui lo spirito americano, libero e innovatore, si è ribellato al rigore del curtain wall importato negli Stati Uniti da Mies van der Rohe. E questo è spontaneo, naturale, un giusto grado zero. Che si sia perso il valore sociale, utopico di quell’insegnamento, a favore di un carattere ludico, puramente espressivo, questo forse è un male del nostro tempo.

Informazioni sulla mostra

Frank O. Gehry dal 1997
Triennale di Milano, viale Alemagna 6 Milano
Fino al 10 Gennaio 2010
a cura di Germano Celant

Ingresso: 8/6/5 euro
Catalogo Skira
Orari: martedì-venerdì 10:30 – 20:30; giovedì 10:30 – 23:00

Tel: 02-89010693
Sito web: www.triennale.it

Paolo Magri – articolo scritto in collaborazione con mostreinmostra.it

Informazioni sulla mostra

Frank O. Gehry dal 1997

Triennale di Milano, viale Alemagna 6 Milano

Fino al 10 Gennaio 2010

a cura di Germano Celant

Ingresso: 8/6/5 euro

Catalogo Skira

Orari: martedì-venerdì 10:30 – 20:30; giovedì 10:30 – 23:00

Tel: 02-89010693

Sito web: www.triennale.it

ArchitetturaartegerhyMilanomostretriennale
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Paolo Magri

Dopo aver peregrinato per la facoltà di lettere e filosofia in quel di Pavia, si laurea in architettura al Politecnico di Milano con una tesi sulla forma urbana e le identità dei luoghi. Nel 2005 fonda, insieme ad Andrea Cattaneo, Medea. Dal 2006 scrive di arte sulla rivista nazionale “ARTEiN”. Vive e lavora a Parigi, città che ama e a cui lo lega lo spirito eterno delle avanguardie artistiche che si aggira ancora nei suoi vicoli.

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