Sabato sera, ora di cena. Haruko alzò il ricevitore del telefono. Fece un respiro profondo prima di rispondere: «Watanabe, sei tu, credevo mi chiamassi nel pomeriggio.» Furono le sole parole che disse a voce alta, come ferita. il resto della conversazione la bisbigliò, diminuendo progressivamente il volume fino a rendersi impercettibile. Il soggiorno era ampio e privo di reale intimità. Haruko aveva la strana abitudine di parlare con suo marito dal telefono fisso accanto all’ingresso, anche quando non era sola in casa. E quella sera, accanto alla piccola Akemi c’era Guido, seduto in poltrona, con un occhio su un libro e l’altro intento a sorvegliare la bambina.
Stranamente, appena Haruko alzò il ricevitore, Akemi si calmò e si mise a giocare con un pupazzo, restando seduta, tranquilla. Guido se ne accorse subito e sollevato ricominciò a leggere. La televisione in lontananza mostrava le immagini di una Tokyo deserta ma forse, tendendo l’orecchio, si poteva avere novità direttamente da Watanabe, se non altro vedendo le reazioni di Haruko. Il giapponese di Guido non era dei migliori ma, concentrandosi, avrebbe potuto captare qualche parola. Poi però si disse che non era bello origliare e quasi per distrarsi ripensò alla giornata trascorsa in giardino.
Era ancora seduto sulla sdraio ad osservare naso all’aria il cielo azzurro di Osaka, intento a respirare l’aria profumata dal fiorire dei ciliegi, quando un rumore famigliare lo fece ritornare sulla terra. Chinando un poco il capo, senza muovere il corpo di un solo centimetro, intravide Haruko scendere dalla biciletta, la custodia del violino a tracolla. Il ciliegio la nascondeva alla vista, Guido era troppo stanco per alzarsi.
“Dormi ancora?” Haruko si esprimeva in un italiano perfetto. “Non ti è bastata la mattinata intera?” Parlava dolcemente, senza alcuna intenzione di ferire.
Guido ebbe solo il tempo di sorridere, Haruko lo raggiunse. “Stavi osservando il cielo azzurro di Osaka? È questo che vuoi dirmi? Se ricominci a dire banalità da poeta mi arrabbio.” E rise di quella sua risata argentina da fata.
Guido sorrise: “sono andate bene le prove?” Si drizzò stancamente sulla sdraio, senza alzarsi.
“Benissimo. Le ragazze sono delle vere professioniste e Vivaldi è il mio preferito.”
“Quando verrete in Italia, sarò in prima fila,” Guido si stropicciò gli occhi, “è molto tempo che non ti ho sentito suonare al conservatorio.” Sbadigliò con noncuranza, senza paura di offendere Haruko.
Lei fece una smorfia: “Vedremo cosa succederà.” Si tolse le scarpe ed entrò in casa: “Vieni. Pranziamo. Tra poco Akemi torna da scuola.”
Dopo pranzo di nuovo in giardino. Guido fingeva di leggere una raccolta di poesie giapponesi ma non poteva imperdisi di osservare Haruko giocare con Akemi. Era un gioco calmo, di quelli che richiedono concentrazione e nessun ragionamento, di quelli che solo i bambini di due anni sanno fare. Akemi impilava sassi che puntualmente cadevano, Haruko li raccoglieva e ne sovrapponeva due, attendendo che sua figlia facesse il resto. Guido ripensò alle tre età della donna di Klimt, a quella composizione che richiude in sé buona parte dei segreti dell’universo.
Haruko si voltò, come sempre accade quando si osserva qualcuno credendo di non essere scoperti.
“Non dirmi che stavi pensado alle tre età della donna di Klimt, altrimenti mi arrabbio.”
“Come fai a saperlo?”
“Guido, sei prevedibile!”
“Prevedibile, io? Il fatto è che ci conosciamo da troppo tempo. Hai doti telepatiche con gli amici.”
Haruko sorrise. “È vero. Ci conosciamo da molto, sembra ieri che ci siamo incontrati a Milano.” Sospirò. “Ci tenevo davvero che ora incontrassi Watanabe, per questo ti avevo invitato in Giappone. Ma lui ha la testa dura e non vuole venire meno ai suoi doveri.”
Era la prima volta che Haruko affrontava veramente l’argomento. Guido provò a difendere Watanabe: “fa quello che è giusto, no?”
Haruko fissò Guido, gelida, poi guardò Akemi: “Non posso venire in Italia e lasciare sola la bambina.”
Il suo sguardo si posò sul Buddha con la bavaglia dentro il tempietto di pietra del giardino. Si voltò con un sorriso amaro verso Guido: “sì, probabilmente fa quello che è giusto.”
Dopo il rituale della passeggiata pomeridiana, Guido tornò a casa di Haruko, puntuale come i giapponesi gli avevano insegnato. Haruko era seduta sui gradini dell’ingresso e osservava Akemi giocherellare con i fili d’erba. I suoi occhi erano distratti, persi altrove.
Guido le si sedette a fianco, si tolse le scarpe e accavallò le gambe accucciandosi sul tavolato del pavimento.
“Ci sono novità?” sussurrò Guido, vergognandosi della domanda.
“No. Watanabe non ha chiamato. Pensavo lo facesse. Forse stasera.”
Silenzio. Haruko teneva gli occhi bassi e percorreva col dito le venature del legno.
“Cosa hai fatto oggi, Guido?” lo guardò con un sorriso.
“Niente di speciale. Ho passeggiato un po’, sono arrivato al tempio, mi sono seduto su una panca di legno e mi sono addormentato.”
Haruko rise fragorosamente, tenendosi la pancia: “Sei incorreggibile! Non avevi dormito abbastanza stamattina?”
“Sono stanco perché non ho chiuso occhio tutta la notte.” Guido fece quegli occhi pietosi che solo lui sapeva fare.
“Perché?”
“Ho dovuto finire l’articolo sulla mostra di Kyoto. Ero in ritardo di tre giorni. L’ho spedito all’alba.”
Haruko scossa la testa sorridendo: “Perché voi italiani volete sempre fare tutto? Non vi accontentate del vostro lavoro?”
“Non amo il mio lavoro, lo sai.”
“Come tutti gli occidentali,” disse, “non vi accontentate mai. Volete sempre fare altro.”
Poi si fece scura in volto: “mancano due giorni e devi partire. Te lo ricordi, vero?”
“Certo.” Guido guardò verso il cielo ormai buio: “le valigie sono pronte.”
“Al telegiornale hanno detto che gli europei rimasti in Giappone sono poche centinaia,”disse Haruko. “I voli di dopodomani sono gli ultimi.”
Ci fu un momento di silenzio: “Da un mese non è più possibile entrare in Giappone. Alla televisione hanno detto che tra due giorni non sarà più possibile uscirne.”
Haruko guardò Guido negli occhi.
“Non capisci? Non verrò più in Italia a suonare Vivaldi. Saremo isolati, lontani da tutto e da tutti.”
“Il lazzaretto del mondo,” sussurrò Guido.
“Il cosa?”
Ora di cena. Tutto è pronto. Le ciotole sono ordinate sul tavolo come forme geometriche in un quadro di Mondrian. I colori si intonano armoniosamente, fondendo il bianco delle stoviglie con il giallo dei tempura, l’ocra dei funghi e il verde del té. Tutto è pronto ma la zuppa si fredda.
Haruko è al telefono da più di mezzora. Dopo aver alzato il ricevitore del telefono, ha fatto un respiro profondo prima di rispondere: «Watanabe, sei tu, credevo mi chiamassi nel pomeriggio.». Sono le sole parole che ha detto a voce alta, come ferita. il resto della conversazione l’ha bisbigliata, pudica.
Akemi gioca con un pupazzo, seduta, tranquilla.
Guido finge di leggere, ma non può fare a meno di tendere l’orecchio, sebbene senta solo bisbigli impercettibili.
Il tono di Haruko aumenta. La conversazione sembra giungere al termine. Ormai Haruko piange. Guido sprofonda nel libro e non può fare a meno di vergognarsi di essere là.
“Sono orgogliosa di te,” dice Haruko, “sono orgogliosa di essere sposata a un uomo come te.”
“Un eroe,” aggiunge.
Poi posa il telefono e si siede per terra, la testa fra le mani.
Si alza. “Ceniamo” dice, “ho fame. Vieni, Akemi, c’è pronto”.
La cena è fredda ma nessuno dice niente. Si mangia, in silenzio.
Guido guarda Haruko un’ultima volta prima di andare a letto.
“Milano ti aspetta,” disse,“vorrei sentirti di nuovo suonare Vivaldi.”
Haruko sorrise. “No, ora suono a Osaka”.