Aldilà del velo
, se aldilà è in grafia univerbata, è un sostantivo maschile: oltretomba, morte dopo la vita, aldilà-della-vita. Al di là, in grafia separata, al-di-là, è una locuzione avverbiale o proposizionale: istituisce un limite indicando l’oltre. Aldilà e al di là sono quindi parole di confine perché inscrivono la differenza tra un qui e un là, tra un qui e un altrove. Aldilà è l’altrove radicale e il simbolo della morte: la mitografia del celeste come non-luogo del non più. Al di là è invece un altrove relativo, un là collocato nello spazio reale, il simbolo della vita nell’antimitografia del terrestre. E ancora: se l’aldilà contiene in sé il valicamento del confine ultimo (da vita a morte), il trapassamento radicale come radicale è morire, al di là è il suo contrario, non la morte ma ancora un luogo di vita, solo collocato più in là, al di là, che è relativo e non svela uno scenario ferale, vuol dire anzi vivere.
Totem
Velo, il velo, richiama l’azione della velatura. Velare è interporre tra un qui e un là qualcosa. Al contrario, de-velare significa togliere il velo. Svelare è invece dire l’enigma. Ri-velare poi significa stendere di nuovo o un secondo velo. In ultimo, vi è la rivelazione nell’accezione di apocalisse, che è sapere ciò che non si sa: il destino ultimo dell’umanità.
Nella Repubblica, Platone racconta il mito della caverna: una scena di uomini incatenati al suo interno, spalle all’uscio. Nelle ombre proiettate sul muro (ombre di persone e oggetti reali all’esterno della caverna), gli abitanti della caverna vedono non la realtà ma la sua mediata illusione (credendola realtà). È come se, trapassato dalla luce, un velo immaginario, distorta la realtà di fuori, disegni in suo luogo l’illusione d’ombra all’interno. Per Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione il velo è essenzialmente velo della maya. Un sinonimo corrente della celebre espressione è illusione, sogno, rêverie, cioè non il mondo come realtà ma in senso platonico il mondo come rappresentazione. Schopenhauer, scrivendo sul mito della caverna platonica e del velo della maya (o del rêve) quale condizione creduta reale, ripensa alla visione degli abitanti della caverna e considera che
“essi credono tuttavia che le ombre siano la
realtà, e che la determinazione della successione
di queste ombre sia la vera sapienza.”
Aldilà del velo o Al di là del velo, quindi? Nel primo caso, una locuzione equivalente potrebbe identificare il velo nella sfera oltremondana, aldilà del velo equivarrebbe a il velo nell’aldilà, o alluderebbe a velature oltretombali (io che immagino). Nel secondo caso, invece, l’al di là del velo sarebbe l’oltrepassamento di un limite di cui il velo è confine in forma di non-confine, se poi proprio il velo separa in astratto e unisce in trasparenza (io che vedo, nonostante il velo).
Nell’opera di Patrizia Garavini, l’idea di confine (aldilà: tra vita e morte. Al di là: tra qui e là) incarna lo specifico dell’arte. E il velo, la velatura è un suo sinonimo semantico. Perché anche nel velo, nell’atto di velare, si statuisce un confine, e il suo mito: l’oltre. Di qua del velo non è la stessa cosa che di là.
Si prenda a esempio Totem (2014), una torre a punta (365 cm) di gres, ruggine e ferro. È collocata in un prato, il prato antistante alla casa-studio dell’artista. Io incontro Totem nel momento in cui dico: è unheimlich, è perturbante. È il doppio dell’opera a perturbare: qui davanti al nostro sguardo e là lontana da noi, familiare (come un’opera d’arte) e straniera (come un objet étranger) presente a noi e assente a noi. Compresi in un comune al di qua spaziale, io e Totem siamo uno dinanzi all’altro, al contempo un velo è steso tra noi a separarci per sempre. È con me Totem e lontano da me, fraterno e forestiero, è una cosa di questo mondo (lo percepiamo) ma è anche di un altro mondo (lo sentiamo).
So che l’incontro di Totem, la sua visione, significa anche perdita, epifania o avvento e resurrezione. Creatura di gres, ruggine, ferro, Totem non è un’opera. O è nata dov’è, forse venuta al mondo per fioritura o, se non è nata lì, allora è caduta al mondo.
Anime
Intitola Anime (2012), l’artista (ma il discorso varrebbe anche per Anime, 2011, e per Bozzoli, 2013), un gruppo di dieci anfore-tubero (terracotta, ossidi, ferro e rame), sei di altezza notevole (190 cm), quattro circa la metà. Ecco l’aldilà: le anime di Patrizia Garavini. Anime di andata, forse anime di ritorno: metempsicosi di una famiglia. Immaginando: trisavoli (due), nonni (due), padri (due) e quattro figli. Sul prato, anche queste, della casa-studio. La doppia natura – come Totem – delle Anime: anime di questo mondo e di un altro perché a questo venute da un altro mondo. Non sono adagiate sull’erba, le Anime sono confitte in terra, anime di caduti: sprofondamenti d’arte. Come Totem, terrestri e familiari e di un altro evo, straniere, come Totem radicate alla terra e anche svettanti, protese verso il cielo (perduto?). Osservate le teste “viventi” delle anime, anelano al cielo, per contorsione e desiderio di tornare via, di tornare nell’aldilà. Catturate dalla terra, il loro sentimento terrestre è la nostalgia del celeste.
Nido
Catturate dalla terra. La terra catturata, la terra caduta. Nido (2014-2015) è forse la cosa d’arte più stupefacente di Patrizia Garavini: un rêve diurno. Una forma ovoidale del globo terracqueo adagiata sul fondo di una rete sospesa. Filo di rame e ottone ossidato lavorato a uncinetto (è la culla), polistirolo, criptonite, acrilici (è l’uovo-terra). Per capire cosa è il limite dell’esperienza estatica nella visione del Nido, non una galleria è il suo luogo di esposizione, il suo luogo, in sé già esposto, è l’assenza di luogo: il cielo. Aldilà e al di là, tra me e l’uovo-terra c’è il velo-rete. Senza, l’uovo-terra mancherebbe di nome, mancherebbe di casa: heimlich-unheimlich.
Io non sono là, sulla terra (che vedo), la terra è là senza di me, sospesa: la terra che vedo è dove sarei (là) e anche dove non sono (perché sono qua). Come Totem e Anime, l’uovo-terra di Nido è una cosa dell’uomo e una cosa venuta all’uomo. Mi concentro sull’uovo-terra: quel che è certo, io credo, è che lo straniamento mi perturba perché vedo dove non sono (la terra è là, io sono qua) e sono in un luogo ma non mi vedo (sono qua ma dovrei essere là, sulla terra). Ecco allora cosa accade davanti al Nido (e davanti a Totem o Anime): un perturbante straniamento o l’esperienza di un oltremondo. Chi voglia avere visione delle opere di Patrizia Garavini dovrà allora abbandonare la terra (per abbandonarsi alla terra).
Non diversamente dallo spettatore del Nido, lo spettatore ideale dovrà quindi retrocedere (corpo e anima) dalle opere, vederle da lontano, e sempre più fino a non vederle più. È nella perdita di visione che si comincia ad andare all’incontro delle opere. È lì nel lontano, perduti a ogni orizzonte, al punto in cui l’orma sul meridiano torna a rivedere l’orma sul meridiano, che è più accanto a noi essere all’oltremondo, più accanto a noi l’opera oltremondo di Patrizia Garavini.
Intervista a Patrizia Garavini
Neil Novello – Con l’inaugurazione della mostra Aldilà del velo (Bologna, Galleria Fondantico, 14 maggio, 13 giugno 2015) e la pubblicazione del catalogo (Patrizia Garavini, Aldilà del velo) sembra che la sua opera, il suo lavoro nel complesso, sia “ricominciato” da un nuovo inizio. Vi è come l’impressione di una rinascita. Lei parla apertamente di un nuovo “identikit”. Allora, qual è stato e come si è espresso il suo lavoro “prima” di Aldilà del velo, quali invece le differenze (nella storia, nella tecnica, nell’espressione…), “da” Aldilà del velo, delle sue nuove opere?
Patrizia Garavini – Il mio lavoro nasce con la ceramica. Quando alla fine degli anni ’90 mi sono trasferita nella campagna della “bassa” bolognese, tra gli ampi spazi di campi, argini e tramonti, il lavoro è diventato racconto: la natura che mi circondava, canneti, aironi, alberi, mele, melagrane. E Dee Madri e il vento… Per “fare”, era necessario integrare la ceramica con altri elementi strutturali, il rame, il ferro, il cemento. Opere figurative, sì, ma espressione dei simboli che per me rappresentano. Il femminile in tutte le sue espressioni e impressioni, forme archetipiche di divinità generatrici di vita. Vita rappresentata dall’albero che cresce nella circolarità spiraliforme del tempo. Tempo dei semi trasportati dal vento a fecondare la terra. Terra che genera, perciò generosa. Canneti come casa/nido a proteggere gli aironi/amanti nel loro canto d’amore. Amore come alfabeto assoluto per svelare il segreto. Negli anni la ricerca all’interno del simbolo ha sottilizzato le forme rendendo più liberi i contenuti. Per questo parlo di nuova espressione.
Neil Novello – Si potrebbe, in generale, parlare del tentativo di trasporre in arte la natura, o meglio di ripensare la natura come “materia prima” della sua arte. A suo parere, quale sono i limiti (limiti, nel senso di estremi nella sperimentazione) verso cui si può spingere la sua ricerca? E, inoltre: se qui il limite appare sconfinato (la natura è sconfinata), e l’arte lo è per antonomasia, lei come immagina concretamente il suo lavoro a venire? Ad esempio, quali sono i suoi progetti artistici immediati e futuri in cui natura e arte partecipano del discorso estetico?
Patrizia Garavini – Se la natura, nella sua parte più fisica e tattile, ha solcato il percorso di un periodo del mio lavoro, ora è una natura più sottile, percettiva e intuitiva a prendere il sopravvento. Come nel caso di Concerto, B, un coro di 72 fiori bianchi, non riconducibili a specie botanica, sospesi su steli di ferro che danzano eleganti come immersi dentro la musica dell’estetica. O come ne Il Nido, una sorta di culla di rete metallica lavorata a uncinetto per un Uovo/Terra, a rappresentare la cura che solo una madre può dedicare. La dedizione, la cura e il tempo sono gli elementi attuali. Permettono un lungo pensare. Il pensiero si avvolge alla materia e la rende più leggera, valicabile. È il tentativo esperito con gli ultimi lavori: rendere leggero e trasparente il metallo, farne un velo attraverso il quale guardare con gli occhi e vedere con l’intuito. È un progetto ancora in divenire, non saprei dire al momento dove porterà. Non sono io a decidere.
Neil Novello – Quando lei parla di dedizione, di cura e di tempo, mi sembra che lei parli anche del materno. E, in effetti, nella sua opera il femminile e il materno, che sono due diverse realtà, sembrano confondersi rigenerandosi a un superiore livello, la creazione. È così? E se lo è si potrà desumere da ciò che ogni atto di creazione artistica si configura come un mediato, traslato atto di generazione vitale?
Patrizia Garavini – Quando si parla di “materno”, spesso ci si ingabbia nel solo rapporto madre-figli, per me invece non esiste il confine tra femminile e materno, e non è legato al solo genere “femmina”. È la parte dell’anima che dona, si dedica, si prende cura, la parte che conosce l’Amore incondizionato, la parte che permette alla “creatura” di divenire “creato”. La nostra memoria più sublime, un ponte virtuale che conduce all’altra sponda del fiume. Dove il tempo si annulla, tutto è, come da sempre. Dove abita l’infinito.
Neil Novello – Passiamo, nella seconda parte del nostro dialogo, a un altro tema: l’uso dei materiali. Se come appare dalle sue opere lei ha un interesse specifico per alcuni e non altri materiali, quali utilizza e quale le ragioni delle scelte?
Patrizia Garavini – Come accennato, inizia tutto con la ceramica. La terra, elemento naturale che, insieme al fuoco, diviene eterna. Sperimentate le varie tecniche, Raku e alta temperatura sono le predilette, perché permettono un dialogo con la materia. Gli smalti si fondono tra loro dando vita al carattere della forma. O la semplice porcellana bianca, che sospesa in libertà di movimento, suona la sua musica. I metalli, che sono stati ossatura e sostegno alla ceramica, diventano ora leggeri e trasparenti, attraverso la trama della tela tessuta dall’uncinetto. Un’interpretazione dell’antica tradizione femminile del tessere. Sono il “velo” oltre il quale guardare.
Neil Novello – Quando lei allude al tessere riferendo di un’antichità iscritta nella stessa nostra tradizione, mi stimola a pensare che il “modo” antico (le mani, la tessitura, l’artigianato ecc.) si rigenera in una “resa” moderna (le sue opere quali sono), anzi vorrei proprio dire di un atto creativo antico-moderno quale “nome” delle sue opere. Lo spettatore allora è spaesato tra il primitivismo di Totem e il modernismo di Concerto, B. Forse troppo brutalmente le chiedo, qual è il codice, quale il segreto delle sue opere dal punto d vista dell’artista?
Patrizia Garavini – La sua domanda mi riporta al commento di un visitatore della mia ultima mostra Aldilà del velo: ha parlato di ‘contemporaneo senza tempo’. L’arte può permettersi di spaziare tra passato e presente, forse non coglie nemmeno il confine. Così come è arcaica certa opera di Picasso, lo è altrettanto contemporanea l’opera visionaria di Hieronymus Bosch. La matrice dell’uomo è la stessa, cambiano la scienza e la tecnologia, tutta la conoscenza si amplifica in maniera esponenziale. Dove ci condurrà? Io credo consapevolmente al punto di partenza… e il cerchio del tempo si svela a spirale.
Nota biografica
Patrizia Garavini nasce a Forli, si trasferisce a Bologna nel 1987, lavora per i primi anni nel mondo teatrale della città, ma è l’incontro con le tecniche ceramiche e la frequentazione “a bottega” dallo scultore Zamboni che cambiano il suo percorso e si dedica completamente al racconto attraverso la creatività. Ceramica e metalli interagiscono tra loro dando vita ad un linguaggio con l’impronta del femminile più remoto. L’iconografia è dapprima quella della natura che la circonda, alberi, canneti, aironi, figure totemiche della dea madre. Col tempo le forme si asciugano di particolari, nel tentativo di elevare la materia all’essenza, alla leggerezza, alla trasparenza, come negli ultimi lavori creati con fili metallici tramati a uncinetto. Dal 1997 espone in mostre collettive e personali e organizza eventi presso il suo atelier.
Sito: www.patriziagaravini.it
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Neil Novello (Oslo, 1969) vive a Bologna. Si occupa di poesia, narrativa e saggistica europea. Nel 2013 pubblica il cineromanzo Nostàlghia. In poesia scrive Falò de’ rosarî (2011) e Rosa meridiana (2004). È autore di un film, Mutterland (2006). In ambito saggistico, scrive Jean Genet. Epopea di bassavita (2012). Nel 2014 cura Tràgos. Pensiero e poesia nel tragico, nel 2008 cura Apocalisse. Modernità e fine del mondo. Nel 2007 pubblica Pier Paolo Pasolini e Il sangue del re. L’opera di Pasolini, cura un commento al Principe di Machiavelli. Nel 2007 cura anche Da Caino a Hitler. Il diavolo e Finisterrae. Scritture dal confine. Nel 2005 cura Età dell’inumano. Saggi sulla condizione umana contemporanea, nel 2004 L’aurora immortale. Le arti e il cinema e La sfida della letteratura. Scrittori e poteri nell’Italia del Novecento. Nel 2002, Eversori e martiri. Attraverso Artaud, Conrad, Genet, Nizan.
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