È la volontà di dipingere un quadro il più semplice possibile. «Ma per dipingere un quadro nella sua massima semplicità – scrive Peter Dreher – lo si deve svuotare del suo valore e di ogni significato. Lo si deve dipingere ancora una volta. E ancora un’altra, e un’altra, cento, mille volte. Così rimane il quadro che non sarà nient’altro che un quadro. Un oggetto come un qualunque altro oggetto». Comincia a dipingerlo anche alla luce diurna con quell’unica concessione, alla serialità della pittura, data dal riflesso – su una piccola porzione del bicchiere – della finestra dello studio, ogni giorno diversa. Migliaia di volte lo stesso bicchiere, uguali ma sempre diversi. L’ossessione di ripetere per accorgersi che ogni ripetizione è unica. Unica come un autoritratto.
Ed è forse questo il senso della pittura di Peter Dreher, che ha in sé tutte le ansie di chi avverte l’urgenza del passare del tempo ma che vorrebbe non portasse cambiamenti, che cerca quasi la prova, in una pittura ossessionata, dell’uguaglianza rispetto al giorno prima, ma che finisce per inciampare in quei piccoli dettagli che tradiscono la distanza tra l’impermutabile vetro del bicchiere e la temporaneità dell’esistenza umana. È quindi molto di più di una pittura realista quella di Peter Dreher. È una ricerca concettuale molto più vicina al lavoro di Roman Opalka e di On Kawara che non al Realismo di Lucian Freud o di Edward Hopper. Forse addirittura un’astrazione personalizzata, come propone Hans Ulrich Obrist in una sua recente intervista a Peter Dreher riprendendo un’espressione di Raymond Hains, una ripetizione metodica quanto compulsiva che carica il dipinto di un bicchiere di ben altri significati.
Peter Dreher, Tag um Tag ist guter Tag – Day by day good day
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