Trascrizione della lezione aperta tenuta a Ferrara, Piazzetta Municipale, 11 novembre 2008, ore 17.00
George Lakoff in nuce, ovvero: perché non è possibile non pensare all’elefante fucsia (e neanche a Maurizio Gasparri).
Prima di cominciare, vorrei chiederVi di sottoporvi a un breve esperimento mentale. Qui davanti a me c’è una sedia vuota: vi chiedo di non pensare, per 15 secondi, che questa sedia siano seduti un elefante fucsia e Maurizio Gasparri. Potete pensare a qualsiasi altra cosa, ma non all’elefante e a Gasparri.
[seguono 15 secondi di silenzio]
Fatto? Bene: vedo dalle vostre facce che non ci siete riusciti. Non per mancanza di volontà: non era passibile che ci riusciste.
La prima parte di questa lezione è la spiegazione del perché. Per brevità farò affermazioni apodittiche, di cui mi scuso: in prossime occasioni potremmo forse approfondire questi argomenti.
Quando parliamo, i nostri linguaggi riflettono la nostra visione del mondo. Questa visione si concretizza in insiemi concettuali, o frame, che veicolano una metafora: usare un linguaggio che riflette la propria visione del mondo è ciò che George Lakoff chiama framing. Queste metafore si radicano nel profondo della nostra mente, ed hanno la caratteristica di rimanervi anche quando i contenuti che veicolano sono andati via. Lakoff sostiene che il radicamento è addirittura sinaptico: possiamo dubitarne, ma non è poi necessario arrivare a questo livello neuro-linguistico per accettare il fatto che le metafore restano anche quando i contenuti sono andati via. Come l’immagine dei due animali che vi ho messo davanti agli occhi, e che non andava via anche quando voi cercavate di non pensarci.
La tesi di Lakoff ha uno sgradevole corollario: non è vero che la libertà rende liberi. Non è vero che se raccontiamo agli uomini e donne i fatti come essi sono realmente, nella mente dei nostri ascoltatori si accenderà la luce della ragione; non è vero, come invece credevano gli Illuministi, che la verità produce una catena di eventi al cui termine c’è l’invitabile mutamento di opinione. Il motivo per cui non è vero è che noi ragioniamo per frame, e la verità, per essere accettata, deve rientrare nei frame mentali delle persone: altrimenti i fatti rimbalzano via e il frame rimane [LAKOFF: 2004].
E cos’è una metafora? Per quel che qui ci serve, basta definirla come un costrutto mentale. Per formarne una basta prendere qualche parola, di per sé neutra, e dare a queste parole un contesto. Ad esempio, una semplice e che congiunge due parole. Se unisco terra e sangue, ottengo un costrutto mentale dalla terrificante potenza evocativa: Blut und Boden. Provate a sradicare l’immagine evocata da queste due parole unite dalla mente di un tedesco! Nondimeno, il significato che ciascuna delle due parole determina verso l’altra è una menzogna – la menzogna nazista. Ciascuna delle due parole infatti contestualizza l’altra: «il contesto und Boden determina il significato di Blut in senso nazista, e lo stesso accade con il significato di Boden» [WEINRICH: 2000]. Cos’è accaduto? È accaduto che due parole, che pensate senza determinazione contestuale non sarebbero in grado di mentire, adesso possono mentire. Tornerò nella seconda parte sull’uso della menzogna.
Torniamo adesso alle metafore veicolate nel framing. Lakoff, che ha studiato a lungo la comunicazione politica dei neo-teo-conservatori americani, ha dimostrato che dentro i loro discorsi, per quanto rozzi e a volte in apparenza comici possano apparire, si nasconde un richiamo a una metafora che chiunque è in grado di capire, perché chiunque la possiede: quella del padre severo.
Il padre severo è colui che:
• protegge la famiglia in questo mondo pieno di pericoli;
• sostiene la famiglia in questo mondo difficile;
• insegna ai suoi figli a distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
L’immagine del padre severo non è politicamente neutrale: rimanda al figlio incapace, impotente, che non è in grado di farcela da solo ed ha bisogno di qualcuno che provveda al suo posto, per il suo bene. Rimanda alla risposta che diede un letterato francese del XVI secolo, Étienne de la Boétie, al perchè gli uomini preferiscono essere servi piuttosto che liberi: perché si sentono impotenti e credono di aver bisogno di un tiranno che agisca al loro posto. La Boétie, per inciso, riteneva che il buon dio avesse invece riservato, giù nell’inferno, un posto a parte per i tiranni e per i loro manutengoli.
Cosa avrebbero dovuto fare i democratici, nel contrastare i conservatori? Non ribattere né praticare la negazione della negazione (come invece è successo per due elezioni). Perché la negazione di un concetto attiva comunque quella immagine mentale (nello specifico, il padre severo) che rimane quando l’argomento è svanito dalle orecchie dell’ascoltatore. Avrebbero dovuto spostare il peso, allargando o modificando il contesto, e attivare una diversa immagine mentale: quella del padre comprensivo, anch’essa presente nelle nostre menti e altrettanto facile da comprendere.
Il padre comprensivo è colui che:
• chiede cooperazione alla famiglia, perché crede che certi problemi non possano essere risolti da una sola persona;
• responsabilizza i figli a farsi carico delle proprie scelte;
• lascia i figli liberi di imparare anche dai propri sbagli.
Se ponete mente alla campagna elettorale di Barack Obama, vi accorgerete che Obama ha avuto questa capacità.
2. Mai dire la verità quando puoi cavartela a forza di stronzate: dall’homo mentiens al mendax, breve fenomenologia della mendacità nella comunicazione politica.
Negli ultimi anni la destra italiana ha fatto proprio il linguaggio dei neo-teo-conservatori americani. Si può individuare una precisa filiera che dai neocon raccolti attorni alla rivista «National Review», e in particolare Michael Leeden, si affaccia in Italia attraverso Giuliano Ferrara (il “traduttore” di Leeden), e giunge fino a Marcello Pera e all’ultimo Giulio Tremonti. È quindi interessante, oltre che pertinente, indagare il linguaggio dei conservatori italiani.
Si tratta di un linguaggio che sembra spesso fa strame della verità, e che nondimeno ha un’innegabile efficacia politica. Analizziamone alcuni aspetti.
In prima battuta, occorre distinguere il mentiens, colui che mente, dal mendax, l’impostore: «C’è infatti differenza fra mentitore e impostore. È infatti mentitore anche chi mente contro voglia; impostore invece è colui che ama mentire e dentro l’animo in modo abituale si diletta della menzogna [mendax vero amat mentiri, atque habitat animo in delectatione mentiendi]». La distinzione è di Agostino d’Ippona, (De Mendacio, XI, 18). Gli enunciati del mentitore sono il contrario della verità: chi mente segue una strategia di verità, sia pure per rovesciarne il senso. In tal modo si sottopone a un criterio di verifica dei propri enunciati. Al contrario, gli enunciati del mendax sono quegli atti linguistici che denominiamo “stronzate”, e sono molto più insidiosi perchè falsificano non l’oggetto del discorso, ma il contesto: «dire una bugia è un’azione con un fine preciso. Ha lo scopo di inserire una particolare falsità in un punto specifico di un insieme o di un sistema di valori, per evitare le conseguenze generate dal fatto che quel punto sia occupato dalla verità. Il bugiardo non può non preoccuparsi dei valori di verità. Una persona che sceglie di cavarsela forza di stronzate ha molta più libertà. Non si limita a inserire una certa falsità in un punto specifico, e così non è costretta ad obbedire alle verità che circondano o intersecano quel punto. È disposto, se necessario, a contraffare anche il contesto. Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze». L’autore di queste performances linguistiche si trova determinato a dire stronzate «ogni volta che le circostanze obbligano qualcuno a parlare senza sapere di cosa si sta parlando», manifestando col suo dire «l’assenza di qualunque legame significativo tra le opinioni di una persona e la sua comprensione della realtà (p. 60)» [FRANKFURT: 2005].
Ancora con le parole di Agostino (Contra Mendacium, IV, 7): «Vedi dove sfocia il male della menzogna! Esso porta logicamente a rendere sospetti non solo noi agli eretici e loro a noi, ma rende ogni fratello sospetto al suo fratello; e così, mentre si ricorre alla menzogna per insegnare la fede, si ottiene, al contrario, che non si abbia più fede in alcuno [Videsne quo tendat hoc malum? ut scilicet non solum nos illis, ipsique nobis, sed omnis frater omni fratri non immerito videatur esse suspectus. Atque ita dum per mendacium tenditur ut doceatur fides, id agitur potius ut nulli habenda sit fides]».
Quasi sempre una stronzata è una notizia falsa incartata in una fallacia argomentativa: eppure le stronzate funzionano. Per dirla col Bardo, sono favole sciocche raccontate da un idiota che si pavoneggia sulla scena per un’ora o due. Ma funzionano: perché veicolano un’immagine che rimane impressa anche quando chi le ha enunciate esce di scena e le sue parole vengono dimenticate.
È l’immagine del padre severo. Prendiamone in esame un breve campionario.
A1. Gli zingari rapiscono i bambini.
Non è mai stato registrato alcun caso di rapimento di minore da parte di cosiddetti zingari: lo ha dimostrato, da ultima, la ricerca della fondazione Migrantes La zingara rapitrice [qui]. La menzogna reiterata ad ogni scomparsa di minori diventa stronzata nel momento in cui coinvolge in un fatto (mai accaduto) un intero gruppo sociale: come si possa dimostrare che una tendenza delittuosa sia peculiare di un gruppo etnico o culturale è un mistero. Nondimeno, l’allarme-zingari richiama alla mente una situazione di insicurezza per la parte più debole della società (le donne e i bambini), e veicola la necessità di un padre severo in grado di proteggere con la sua giusta forza i deboli.
A2. Esiste un’emergenza criminalità nel paese.
I dati contenuti nel Rapporto sulla criminalità in Italia 1993-2006 della Polizia italiana nel periodo 1993-2006 (confermati dai dati del 2007) dicono esattamente il contrario: i reati, ad eccezione di quelli commessi tra le mura domestiche ai danni delle donne e dei minori, sono diminuiti nell’ultimo ventennio: «secondo i dati delle Forze di polizia, per esempio, per trovare un tasso di omicidi consumati pari a quello odierno dovremmo tornare indietro fino all’inizio degli anni settanta […]. Nel 2006, quindi, il tasso di omicidi è stato il più basso degli ultimi trent’anni». A titolo di esempio: gli omicidi nel 2001 erano 1.918, nel 2006 sono stati 621, cioè il 32.4%; nel 2007 (fonte: Viminale), a dispetto del cosiddetto effetto-indulto, sono ancora scesi a 593 [il Rapporto è scaricabile qui]. L’insicurezza percepita non è causata da un effettivo aumento dei reati; al contrario, è la diffusa percezione di insicurezza ad ampliare la paura verso ipotetici reati e a creare una distorta percezione di nuove figure sociali (come i migranti) come orde di delinquenti sbarcati in Italia per commettere quelle nefandezze che nel loro paese non possono perpetrare. Di nuovo, questo messaggio mendace veicola il bisogno di un padre-gendarme, del quale abbiamo bisogno perché ci sentiamo indifesi.
A3. Esiste un’emergenza-disciplina nelle nostre scuole.
In realtà non esistono dati certi su questo presunto aumento dell’indisciplina. Al contrario, la ricerca Education at a glance 2006 pubblicata dall’OECD proprio in questi giorni evidenzia che l’81% dei genitori degli studenti 15enni è soddisfatta o molto soddisfatta dell’atmosfera disciplinare della propria scuola. I dati sul bullismo dimostrano poi che il fenomeno del bullismo subisce una notevole dimensione nel corso del ciclo scolastico: in media, uno studente che manifesta tendenze o comportamenti bullistici nelle elementari esce dalla pratica del bullismo con percentuali di molto superiori a quelle ottenute attraverso la rieducazione carceraria o la comunità di recupero per tossicodipendenti (si passa da un 28% di studenti coinvolti in fenomeni bullistici nella scuola elementare, al 20% nella scuola media, a circa il 10-15% nelle scuole superiori: i dati sono reperibili qui). Benché non sia finalizzata a ciò, la scuola italiana è di fatto il miglior sistema di recupero e rieducazione della devianza sociale esistente. Ci sono molte più probabilità di fare del bullo un criminale espellendolo dalla scuola attraverso un provvedimento disciplinare, che recuperarlo mantenendolo all’interno del sistema scolastico. Ma il periodico richiamo alle emergenze disciplinari o bullistiche richiama l’immagine dell’insegnante-padre giusto, severo e inflessibile. E se deve essere severo, è bene che sia unico: ci vuole certezza nei ruoli familiari e para-familiari.
B1. I bidelli non puliscono le scuole, che devono ricorrere alle aziende di pulizia per supplire alle loro mancanze;
B2. Ci sono in Italia più bidelli che carabinieri.
La prima affermazione confonde la causa con l’effetto: le scuole sono costrette a ricorrere alle ditte esterne per supplire alla diminuzione di personale perchè negli ultimi 5 anni gli ausiliari della scuola sono diminuiti di 15.000 unità (10.000 dei quali bidelli). Notate che la spesa per le agenzie esterne di pulizia è superiore al costo dei bidelli: ma le agenzie sono a carico della scuola, i bidelli del Ministero, che genera uno spreco di denaro pubblico attraverso un trucco contabile. Inoltre, non è vero che i bidelli siano più dei carabinieri: i bidelli assunti con contratto a tempo indeterminato sono meno di 110.000, i carabinieri sono più di 112.000. Suddivisi per luoghi di lavoro, abbiamo meno di 3 bidelli per scuola (le scuole sono 42.000), e circa 20 carabinieri per caserma. Ma che senso ha questa comparazione? Perché il numero dei bidelli dovrebbe essere comparato con quello dei carabinieri, piuttosto che con quello dei maniscalchi, dei palombari, dei calciatori dilettanti o dei pescatori con la lenza? Licenziando i bidelli dovremmo ricorrere ai carabinieri per accompagnare i bambini in bagno o per tagliar loro la fettina nella mensa scolastica? Tuttavia questa stronzata richiama alla mente, attraverso il carabiniere, l’immagine di un severo ma giusto tutore all’interno di un luogo sporco e frequentato da sfaccendati.
Tutti quanti da bambini abbiamo letto Pinocchio, e tutti abbiamo in mente le immagini lo illustravano. Pinocchio stretto tra due carabinieri fa parte del nostro immaginario: noi stavamo con Pinocchio, ma sotto sotto quei due gendarmi un po’ incutevano timore, e un po’ rispetto. La loro immagine è rimasta in un qualche angolo della nostra mente, e viene risvegliata da queste sequenze di parole prive di senso.
3. Da G. Lakoff ad H.G. Frankfurt: come la linguistica può insegnarci le relazioni tra il sette in condotta, la crisi finanziaria e i tagli alla scuola pubblica.
Per l’ultima parte di questa lezione vi sottopongo un ulteriore enunciato, proferito dal ministro Gelmini: Chi critica i tagli di bilancio sulla scuola dovrebbe spiegare dove trovare gli 8 milioni di euro.
Anche questo enunciato è mendace. In primo luogo, è ben strano che questa richiesta di provvedere alle esigenze di bilancio provenga da un ministro senza portafoglio: è il ministro Tremonti ad avere la competenza di reperire fondi per il bilancio dello Stato. In secondo luogo, l’enunciato è del tutto privo della possibilità di essere verificabile, dal momento che chi lo proferisce non pone il suo interlocutore in condizione di poter davvero intervenire sul bilancio con proposte operative. Per capirci: io credo di poter reperire questi fondi, ma non ho alcuna possibilità di farlo realmente. Infine: è ben povera la concezione della politica di questo ministro, che ignora che il suo compito, come esponente del ceto politico, è di reperire i mezzi necessari ai fini che la società si propone. Se stesse a noi determinare, oltre che gli scopi, anche i mezzi, a cosa servirebbero i politici? In sintesi, si tratta di un enunciato mendace, posto all’interno di un contesto falsificato, ed esposto con intenzione insincera. Una stronzata, insomma.
Ma guardiamo all’immagine nascosta dentro questo enunciato: è una variante del padre giusto, ma severo. Per l’esattezza, è quel padre che torna a casa e sbotta verso la famiglia: «io sgobbo tutto il giorno per voi, e questa è la ricompensa! Andate a lavorare voi, se non vi sta bene!» Accanto al padre severo, c’è il padre che si barcamena tutto il giorno per il bene comune. Come il ministro dell’Economia, o il presidente del Consiglio, che lavorano tutto il giorno per salvare dalla crisi un paese bisognoso di difesa e rassicurazione. A volte capita loro di perdere la calma, per quanto lavorano. A volte lavorano tanto da lasciare la luce accesa anche di notte: succedeva anche settant’anni fa, a piazza Venezia.
Dietro questa variante c’è la subdola riproposizione della coppia tiranno-tecnocrate, che hanno in comune la pretesa di arrestare il divenire delle cose: il primo imponendo dall’alto la «totalizzazione del significabile e del conosciuto al ritmo della totalità sociale esistente in quel momento», il secondo imponendo dal basso «assetti parziali dei rapporti sociali al ritmo delle acquisizioni tecniche» [DELEUZE: 1969]. L’immagine che accomuna queste due varianti dell’esercizio del potere è quella del padre iracondo.
Andiamo a concludere. All’ordine del giorno, nell’agenda politica, sembrano esserci tre temi: una riforma in senso autoritario della scuola (maestro unico, voto in condotta); i tagli al sistema-istruzione; la crisi finanziaria internazionale. Questi tre temi sono accomunati nel profondo dall’immagine che veicolano: non importa che i problemi vengano realmente risolti, importa che i cittadini siano convinti che qualcuno li protegge, li difende, sceglie per loro ciò che è bene e ciò che è male.
Voglio però sottolineare altro aspetto accomuna questi tre temi: in tutti e tre i casi, si tratta di eventi che incidono sulla nuda vita, sul bios del cittadino. La reintroduzione dei provvedimenti disciplinari reintroduce una sanzione inestinguibile sul corpo vivo dello studente, che pagherà per l’intera vita l’espulsione dal sistema formativo e sarà condannato per sempre alla deprivazione dei requisiti cognitivi minimi, indispensabili per esercitare il diritto di cittadinanza nella società globale. I tagli al sistema istruzione creeranno una gerarchia perenne, basata sui diversi livelli di apprendimento conseguiti all’interno di un sistema improntato alla disuguaglianza sociale, culturale, etnica. La finanziarizzazione dell’economia coinvolge la vita stessa in un circuito economico virtuale, dove l’aspettativa di guadagno (un fatto linguistico con effetti performativi) ottenuto con fondi dai nomi fantasiosi – dal lugubre Anthrace allo speranzoso Espero – attira il risparmio, la pensione, il futuro prossimo e remoto delle esistenze in una spirale nella quale vorticano paura e deresponsabilizzazione etica. Paura, perché ogni minima fluttuazione borsistica in un remoto paese (ancora un fatto linguistico performativo) fa temere per il destino della nostra pensione, dunque della nostra vita. Deresponsabilizzazione, perché fingiamo di non sapere che l’ipotetico guadagno atteso viene strappato dalle bocche di un bambino centroamericano o africano [MARAZZI: 2002].
È per questo che l’approccio linguistico è utile a comprendere le connessioni tra i diversi aspetti della crisi in corso.
Questo approccio ci dice anche che ad un’eventuale marcia indietro del governo su scuola, ricerca e università potrebbe non corrispondere una nostra vittoria e una sua sconfitta: perché l’immagine di un padre severo che ha provato a rimettere ordine in un mondo di sfaccendati e buoni a nulla, ma non gli è stato permesso di farlo, potrebbe permanere. E sarebbe pericoloso non accorgersene.
È necessario avere la capacità di attivare altri frame mentali, altre metafore. Di allargare il discorso, ampliare il contesto. Mostrare un comune interesse non contrapposto, ma diverso e più ampio rispetto a quello sottinteso dalle politiche in atto. La parola d’ordine di questo movimento: NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO, ha questa capacità. Dentro questa parola possono trovare cittadinanza studenti e insegnanti, genitori e lavoratori della scuola. Ma anche precari, operai, migranti, subordinati: tutti coloro che sono toccati dalla crisi nel vivo della propria esistenza.
NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO è un buon punto di partenza.
[fonte: Carmilla]