Martedì 12 Gennaio 2016, una mattina come tante a Istanbul,la città che non dorme mai e che come ogni mattina riprende la sua vita quotidiana. Chi lavora, chi va a scuola, chi è in giro a fare spese, chi sorseggia il solito çay, i numerosi turisti che si aggirano, affascinati, fra i tanti luoghi meravigliosi di questa città incantata, mischiandosi con i turchi stessi: Torre Galata, il porto di Karakõy,Sulthan Ahmet, giusto per citarne qualcuno. Già, Sultan Ahmet, cuore pulsante della Istanbul turistica. E’ facile immaginare questa zone tra le più visitate, con i tanti monumenti e le due moschee più famose, gremita di turisti provenienti da tutto il mondo che la visitano spensierati, felici di godersi le proprie vacanze, nonostante il clima di tensione che invade tutto il medio oriente (ma oserei dire ormai tutto il mondo), lontani dal sospettare che proprio lì e durante le loro vacanze, qualcosa di tragico sta per compiersi. E invece succede.
Una mattina a Istanbul
Sono circa le 9 del mattino a Istanbul, tutto sembra normale, quando un boato squarcia il tranquillo scorrere del tempo di una giornata qualunque. Un kamikaze si fa esplodere proprio al centro della piazza di Sulthan Ahmet, accanto all’obelisco di Teodosio, provocando la morte e il ferimento di numerose persone, la maggior parte straniera. Io sono a scuola, abbastanza lontana dal luogo della tragedia. La notizia ci giunge come un pugno nello stomaco e siamo tutti increduli, costernati, dispiaciuti e arrabbiati per l’ennesima tragedia, forse annunciata, dopo il terribile attentato di Ankara dello scorso ottobre, in cui i terroristi avevano ribadito che anche Istanbul sarebbe stata nel mirino. Il più spaventato è un mio collega che proprio la settimana prima era stato lì con la fidanzata e i suoceri e nei suoi occhi terrorizzati è facile leggere la consapevolezza di chi pensa: «Cavoli! Se fosse accaduto la settimana scorsa, potevamo esserci noi tra quelle vittime…» Sono cose che ti segnano dentro. Ovviamente, tra una lezione e l’altra, cerchiamo di informarci tutti il più possibile su quanto accaduto, attraverso i social network e i giornali turchi.
I fatti
Apprendiamo che il kamikaze apparteneva all’Isis e che si chiamava Nabil Fadli, cittadino siriano ma nato in Arabia Saudita. Ha provocato la morte di diverse persone, soprattutto di turisti tedeschi. Dopo un primo momento di sgomento è scattato subito lo stato di emergenza e la caccia a possibili complici da parte della polizia turca che ha sigillato la zona. Dalle prime notizie giunte, o anche da chi ha assistito alla terribile tragedia, apprendo che la situazione era caotica, le scene strazianti, la gente comprensibilmente in stato di shock e disperazione. Pare che l’esplosione sia stata così forte che si è avvertita a diversi chilometri di distanza. Comprensibile anche la reazione di numerosi turisti che, dopo la tragedia, hanno voluto interrompere le vacanze e tornare nei loro Paesi il più presto possibile, creando non pochi problemi agli alberghi che li ospitavano o alle agenzie di viaggio. Immediati i messaggi di cordoglio dei vari Paesi alla Germania. Dure e decise le parole della cancelliera tedesca Angela Merkel dopo la tragedia: «E’ necessario intervenire al più presto contro il terrorismo internazionale che ha mostrato il suo brutto volto a Istanbul, Ankara, Parigi e in Tunisia, e dobbiamo agire in modo deciso.» Idee condivise dalla maggior parte dei governi e dell’opinione pubblica. Anche il presidente turco ha condannato l’azione terroristica dell’Isis che sta seminando terrore, distruzione e morte in molte città. E ovviamente, accanto ai messaggi di cordoglio e dispiacere per quest’ennesima tragedia, sono piovute anche le critiche da parte di chi si chiedeva come mai in una città come Istanbul, iper-sorvegliata dalla polizia, sia stato poi possibile non accorgersi in tempo che un kamikaze fosse riuscito ad eludere la sorveglianza e farsi esplodere addirittura in un centro turistico, controllato come piazza Sultan Ahmet.
Le vittime sono tutte uguali
Chi continuava a ripetere solo che le vittime erano tedesche, senza badare che vi erano altre vittime o feriti di altre nazionalità; o ancora, che città come Istanbul sono pericolose e così via. Allora la raffica di foto con la scritta “Je suis Germany” come all’epoca di”Je suis Charlie” o “Je suis Paris”, ma dimenticando che nello stesso periodo si erano verificate tragedie simili in altre parti del mondo, che invece sono stase lasciate un po’ nell’indifferenza non solo umana ma anche dei media. So bene che certe reazioni nascono dal fatto che siamo dispiaciuti e arrabbiati per la morte di persone la cui unica colpa era di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma allora dovremmo essere dispiaciuti e arrabbiati per tutti e quindi bisognerebbe dire: “Je suis Syria”, “Je suis Somalia”, suppongo. Perché, di fronte a situazioni come queste, i morti e i feriti non hanno nazionalità, il sangue è rosso per tutti. Chi muore per cause tragiche e ignobili come queste sono solo vittime, uguali tra loro, accomunate solo da un tragico destino, per colpa di pazzi che si nascondono dietro la religione, mentre in realtà sono solo delle persone vigliacche, con la sola voglia di uccidere. E come ha detto una mia amica italo-turca che ormai da vent’anni vive a Istanbul «”Vittima” é tutto ciò che hanno intorno, il Paese che li ospita ancor più per non aver potuto difenderli, noi che restiamo a guardare… Ovviamente ci si sente più colpiti quanto più é vicina la tragedia.» E io non potrei che essere più d’accordo.
Tra timore e voglia di reagire
Non sto a dilungarmi sul fatto che ormai viviamo in un clima di tensione, che l’Isis ogni giorno minaccia nuovi attentati contro mezzo mondo; ormai tutti conosciamo la situazione e direi che il mondo è diventato una bomba ad orologeria e che siamo tutti in pericolo. Inoltre, anche altre città europee non sono state immuni dal pericolo terrorismo e Parigi ne è un esempio fortissimo. Semmai è la concezione che non accenna a morire che i Paesi islamici siano pericolosi. Ma non è così, è un luogo comune che ormai non sta più in piedi visto che nessun Paese è ormai al sicuro. Certo, il Medio Oriente è forse più esposto al pericolo attentati ma non è il solo a vivere nel terrore. Ho visto ancora questa idea viva anche in chi mi ha inviato messaggi o telefonato per sapere se stavo bene, ripetendo che forse era meglio tornare in Italia. Certo capisco che tutto ciò è stato detto per preoccupazione e per affetto, ma ribadisco: è un’idea radicata ancora nelle nostre menti, forse dovuta dalla scarsa conoscenza di una nazione come la Turchia ad esempio. Ovvio che il timore che si possano ripetere altri attentati è presente, si prendono maggiori precauzioni. Si ha più paura ad usare i mezzi pubblici, si evitano i punti più sensibili agli attacchi, li si frequenta il meno possibili per un po’, a meno che non si viva in quell’area o in caso di necessità. Perché, ripeto,la Turchia non è più pericolosa di altre nazioni dell’Oriente o dell’Occidente. E allora non resta che seguire l’esempio dei Turchi che, seppur intimoriti sanno che la vita deve proseguire, che seppur non completamente abituati alla possibilità di attentati (ma chi lo sarebbe poi?), hanno imparato a convivere con questo genere di situazioni.
Je suis le monde
Io ho scelto di vivere in questo Paese che, nonostante le sue contraddizioni, nonostante sia in between tra l’occidentalizzazione e le proprie radici, nonostante abbia una delicata situazione politica, mi ha accolto come una mamma accoglie tra le braccia il proprio figlio, regalandomi tante soddisfazioni. Sono affezionata a Istanbul, la sento in parte mia, sono consapevole della possibilità di nuovi attacchi e se dovessero accadere spero solo – forse anche un po’ egoisticamente – di non essere nei paraggi e, se la situazione dovesse farsi veramente pericolosa, ovvio che valuterei bene se rimanere oppure no. Ma quello che veramente mi preme di dire è che forse dovremmo cominciare noi stessi a mettere da parte certi luoghi comuni e gli stereotipi che alimentano queste differenze. Si tratta proprio di quello che gruppi terroristici come l’Isis vogliono per aprire ancor più il divario tra Occidente e Oriente. E allora forse la frase più corretta che potremmo dire in caso di futuri attentati, è: «Je suis le monde», io sono il mondo, perché se fossimo tutti uniti a condividere lo stesso pensiero, e se i governi collaborassero veramente insieme per distruggere questo morbo sociale che è il terrorismo, apriremmo un primo squarcio contro il muro quasi incrollabile di queste organizzazioni terroristiche sanguinarie, il cui scopo è quello di seminare morte e terrore.
In attesa di condividere quel “Je suis le monde”, che segni la fine di ogni terrore, per il momento mi limito a dire solo: “Istanbul, hep kalbimdesin”, “Istanbul, sei sempre nel mio cuore”.