Continua dall’uscita precedente, che potete leggere qui, il reportage di viaggio dal Giappone del caporedattore di arte e società di Medeaonline Paolo Magri. Il suo viaggio per il Paese del Sol Levante prosegue da Hirosima a Kōya-san
Hiroshima ci accoglie con meno calore. Una pioggia torrenziale e un vento sferzante ci ricordano ad ogni momento che poco lontano è in corso l’ennesimo tifone, una delle piaghe del Giappone. Al telegiornale minimizzano: il tifone è localizzato in un isola ad Est e non sembra voler raggiungere le coste del paese. Dall’hotel in cui alloggiamo, un grattacielo in cemento armato a fianco della stazione, la pioggia ci trasmette l’immagine di una città modernissima e un poco frustrante, in cui la speculazione edilizia del dopoguerra ha trasformato le macerie della prima bomba atomica in una megalopoli di milioni d’abitanti. Una città che serba il ricordo della tragedia per mettere in guardia il mondo dai rischi della proliferazione atomica, ma che ha saputo rifondare la propria immagine in quella dinamica e giocosa di una città industriale e giovane.
La memoria di Hiroshima
Hiroshima è una tappa obbligata per capire il Giappone antico e moderno. Poco lontano dalla città si trova il segno forse più rappresentativo dell’intero del paese: il Tori di Miyajima, la porta nel mare che, come un ideogramma, rappresenta la raffinata sintesi giapponese tra scrittura e rappresentazione visiva che fonde cultura taoista e scintoista in un tollerante sincretismo che forse spiega l’attitudine giapponese ad accettare le contaminazioni senza mai perdersi di vista. In città, il Museo della Pace a Hiroshima ricorda l’immane tragedia che getta la basi del Giappone moderno. Sconcertante e necessario, non ci sono altri aggettivi.
Le imprese
A Hiroshima la presenza dell’impresa automobilistica Mazda è dovunque, dalla stazione allo stadio, ad indicare lo stretto rapporto identitario che esiste ancora in Giappone tra l’impresa ed il territorio di origine, tra il destino di una marca e quello di un popolo. Questo aspetto è indubbiamente uno dei temi ricorrenti del viaggio: Il Giappone è un paese che esporta in tutto il mondo ma che evidentemente non ama importare. L’approccio protezionistico è palese quanto il loro amore per il riso e il tè verde. Tutto è attorniato da brand giapponesi. Dalle scale mobili, agli ascensori, alle televisioni ai computer, passando per i condizionatori, gli elettrodomestici e le automobili, le marche si scambiano in un gioco di permutazioni improbabili che fa impallidire ogni teoria economica occidentale sulla specializzazione del prodotto. Le imprese costruiscono le città, influenzano la politica, i riti sociali, regolano la vita dei cittadini, ne accompagnano persino la morte, come è visibile nei cimiteri, dove steli commemorative con i loghi delle multinazionali si affiancano alle tombe.
Le automobili
In questo patto sociale tra cittadini ed imprese, le automobili costituiscono un capitolo importante. Quanto la società contemporanea sia ancora fondata sull’automobile, lo dimostra la crisi delle produzioni occidentali e la forza di quelle asiatiche. Il Giappone si protegge utilizzando quasi esclusivamente vetture made in Japan: automobili, camion e camioncini dalle forme minuscole e tondeggianti, molto simili a quelle che vediamo nei manga. Citiamo i taxi, tutti uguali, modello Toyota Comfort, il cui design è degno delle macchine di stato della DDR, ma che nascondono tecnologie stupefacenti, prima tra tutte la portiera che si apre automaticamente ad accogliere il cliente. Le uniche automobili straniere concesse al contagocce sono le tedesche e qualche rara italiana (esclusivamente alfa Romeo, Fiat 500, Maserati e Ferrari), quasi inesistenti le macchine degli altri paesi e sopratutto (quel che più importa per i giapponesi) le coreane.
I templi di Kōya-san
Lasciamo Hiroshima per Kōya-san, il monte Kōya a sud della città di Osaka, nella prefettura di Wakayama. Considerato uno dei luoghi più sacri del Giappone, raccoglie 117 monasteri buddisti intorno al complesso di templi del Danjō Garan sparsi quà e là sulle montagne. L’area fu fondata dodici secoli fa dal monaco Kōbō-Daishi, creatore degli alfabeti sillabici kana, il quale, secondo la tradizione, continua a restare in meditazione dietro la porta del tempio del cimitero di Okunoin. Dietro quella porta io ed Elise siamo arrivati la prima notte del nostro soggiorno al monastero di Eko-In, guidati da un monaco e scortati da una televisione giapponese intenta a riprendere un gruppo di turisti occidentali alla scoperta dei misteri nipponici nel freddo delle montagne giapponesi bordate di cedri. Il soggiorno al monastero di Ekoin è stato piacevole, rilassante, inaspettato. Camera tradizionale giapponese con pareti scorrevoli, tatami a scandire lo spazio, pranzo e colazione strettamente vegetariani a base di riso, tè verde, frutti aciduli, tofu, insalata, zuppe di alghe. La mattina alle 6:30, sveglia insieme ai monaci per assistere alla preghiera e alla cerimonia del fuoco: un monaco doma una fiamma ripetendo una litania come si può ammaestrare un dragone con una formula magica; una ragazza asiatica stringe gli occhi e le mani per restare concentrata e comunicare con gli spiriti; io scatto foto e prendo appunti come un etnologo in erba.
Antiche leggende
Il resto della giornata lo trascorriamo visitando i templi Kōya-san, il cui legno si confonde con quello degli alberi secolari che li attorniano. Un luogo in cui si raccontano storie millenarie. Tra di esse c’è quella di Ishidomaru, un giovane guerriero che sposa la figlia dallo Shogun. La sua passione è però dibattuto tra l’amore per la moglie e quello per una bellissima contadina, conosciuta nel corso della cerimonia dei ciliegi. Ferito dall’odio che divide le due donne, e dopo la presunta morte della moglie, vergognandosi della propria cattiva condotta, l’uomo si rifugia nel monastero di Karukaya-do, diventando monaco e rinunciando alla vita mondana. A sua insaputa, la moglie è sopravvissuta e mette alla luce un figlio, che cresce senza conoscere il padre. Alla morte della madre, giunto alla maggiore età, il giovane va alla ricerca di Ishidomaru e lo incontra al monastero. Ma il monaco ha ormai cambiato vita e porta il figlio dinnanzi alla tomba di se stesso, dicendo che Ishidomaru è morto. Il figlio, disperato e orfano, decide di restare al monastero e diventa monaco a sua volta. Padre e figlio, ora maestro e novizio, passeranno il resto della vita insieme, raccolti in preghiera.
Il sole cala presto in Giappone. Non è più tempo di fare fotografie. La stazione ci attende per un nuova tappa del viaggio. Si parte verso Tokyo, alla scoperta del Monte Fuji, delle stampe di Hokusai, della capitale dove si concepiscono i poetici cartoni animati di Hayao Miyazaki.