Esce in libreria un volume che farà la felicità di tutti gli appassionati di Hugo Pratt. Questa volta però non è il suo eroe per eccellenza – Corto Maltese – al centro dell’attenzione: “Con Hugo” racconta il maestro italiano del fumetto attraverso i ricordi di sua figlia Silvina. Uno sguardo inedito e affascinante sulla vita e sull’opera di un artista che ha segnato indelebilmente la storia del fumetto. Riproponiamo per i lettori di Medeaonline la bellissima presentazione del volume, pubblicata su Repubblica del 6 luglio, ad opera della stessa Silvina Pratt.
Che cosa non sappiamo della vita di Hugo Pratt, il creatore di Corto Maltese? Lui l’ ha raccontata, a volte inventata, sempre mitizzata. Altri hanno cercato di stabilirne la cronologia puntigliosa o di diffonderne la leggenda avventurosa. Quello che so della vita di mio padre è nei miei ricordi – la profondità della memoria. Quello che ignoro della biografia di mio padre è nei libri – la superficie delle cose. Hugo è davvero un amante della vita avventurosa o non è piuttosto l’ avventura che gli corre continuamente dietro, contro la sua volontà? Credo che preferisse trascorrere tre giorni alla ricerca di aneddoti e storie nei suoi libri, piuttosto che partire per il giro del mondo. L’ avventura e gli avventurieri si sono ricongiunti a lui nella sua leggenda. La realtà talvolta è più terra terra. Come quando si è recato sulla tomba di Stevenson sull’ isola di Apia, nell’ Oceano Pacifico. Mi ha raccontato che non ce la faceva, il sentiero era troppo ripido, gli mancava il fiato. Ha finito per sorvolare la tomba dello scrittore in elicottero… mio padre era uno con la parlantina sciolta, sempre pronto ad abbellire la verità. Voleva trasformare e correggere ogni cosa, il suo nome, il suo passato, la sua famiglia, le sue origini, i suoi figli. La realtà doveva apparirgli troppo scialba. La realtà della minuscola bottega di pedicure di suo nonno e l’ odore di piedi. La realtà di tutti quegli adulti stipati nell’ appartamento di famiglia a Venezia, tutte quelle donne, sua madre, le zie, la nonna, e tutti quegli uomini che vanno e vengono nelle loro uniformi militari. A tavola, gli adulti e lui, il solo bambino, che si rifugia nel suo mondo grazie ai fumetti americani, un altro mondo, un mondo ancora da scoprire. Mi raccontava che un giorno sua madre aveva buttato nella spazzatura i suoi fumetti e i suoi disegni infantili. Di fronte alla sua collera, gli aveva chiesto se preferisse essere piccolo nel mondo dei grandi o grande nel mondo dei piccoli. Hugo aveva risposto senza esitazioni: «Grande nel mondo dei piccoli!»
Imparare a nuotare. Prima di tutto c’ è il sentiero tra le “canne”, gli alti bambù. Il calore toglie il fiato e la luce è abbacinante. Si sente il canto dei grilli, facciamo lo slalom tra le pozzanghere di fanghiglia quasi secca nelle quali si dimenano i girini. Raccogliamo queste piccole creature nere per vederle trasformarsi in rane grigie, ma nel giro di qualche giorno le rondini vi planano sopra. Questo sentiero non è più lungo di una decina di metri, ma è tutto il nostro mondo. Abbiamo le pinne ai piedi e Hugo ci trascina dove noi non tocchiamo. Per prendere fiato, di tanto in tanto ci aggrappiamo a lui, alla sua grande pancia, alle braccia ricoperte di lentiggini. […] Poi Hugo rientra tutto solo nel suo grande studio al pianoterra, per starsene tranquillo e disegnare. Per quanto i miei ricordi riescano a portarmi indietro nel tempo, so che mio padre è un disegnatore, mi sembra di averlo sempre saputo. Devo avere due o tre anni. […] Lo vedo seduto davanti alla pagina in corso di realizzazione, affonda il pennello in un vasetto di vetro. Sul tavolo ci sono dei pennini e l’ inchiostro di china. Si sente un sottofondo musicale, come in sordina. Lui non parla, è concentrato sul suo lavoro. Sta disegnando la prima tavola di Una ballata del mare salato. Corto è attaccato a una zattera naufragata in mezzo all’ immensità dell’ oceano. Il mio primo ricordo di mio padre disegnatore. […]
Papà. Noi non lo chiamiamo mai “papà”, nessuno dei suoi figli l’ ha mai chiamato “papà”. Personalmente, faccio un tentativo verso i quattro o cinque anni. Sono per strada con i miei amici sotto la nostra abitazione. Hugo mi chiama per dirmi di tornare a casa. Gli rispondo: «Sì, PAPÀ». Lui non dice niente, ma si volta di scatto, come se avesse preso la scossa. Saliamo le scale di marmo, tre piani, senza una parola. Arrivati a casa, finalmente mi risponde. Se mi azzardo di nuovo a chiamarlo “papà”, giura di trattarmi come una vecchia cornacchia puzzolente davanti a tutti! Avrei dovuto insistere! Per un “figlio della lupa”, nipote del fondatore del movimento fascista a Venezia, probabilmente è meglio diventare un “duro” il più presto possibile. Figlio unico, maschio, circondato da donne di carattere, Hugo nutriva una grandissima ammirazione per gli uomini di famiglia. […] Soldato adolescente, partito per la guerra in Africa, ha visto suo padre imprigionato e poi, malato, morire in un campo. Hugo aveva solo sedici anni quando ha lasciato la terra d’ Africa senza suo padre. […] Con Hugo si hanno sempre impressioni talmente mutevoli che sembra di essere sulle montagne russe. Il rosso e il nero, il caldo e il freddo, dalla felicità all’ aridità. […] Con i suoi occhi blu di ferro, acuti come scalpelli, che ti scandagliano e trafiggono il cuore, Hugo riesce a far abbassare lo sguardo altrui e può anche far piangere per un sì o per un no. è consapevole del suo ascendente sugli altri e non se ne rallegra, anzi, a volte ne è addirittura furioso e triste. […]
In viaggio. Mi ricordo di un lungo viaggio con la famiglia. Devo avere a malapena una decina d’ anni, sono le vacanze estive, ci troviamo in macchina e guida la mamma. Percorriamo la costa spagnola, attraversiamo l’ Andalusia per poi terminare il nostro periplo in Portogallo. Ricordo le autostrade sotto il sole. La sera ci fermiamo in alberghi con piscina. A Cordoba la piscina è sul tetto dell’ hotel. Nuotiamo sotto il sole ormai al tramonto ma ancora caldo; degli uccelli ci planano intorno e le campane di una chiesa suonano a distesa. Uno di quei momenti che non si possono dimenticare… Sempre a Cordoba, Hugo ci fa cercare la statua del filosofo arabo Maimonide. Tocchiamo la sua babbuccia e ciascuno di noi esprime un desiderio. Sulla costa portoghese mi ricordo di un enorme castello bianco costruito sul bordo di una falesia a picco sulle scogliere. è un ristorante. Di gran classe. La sala è vuota, come se stesse aspettando solo il nostro arrivo per animarsi. I camerieri in divisa bianca vengono subito ad accoglierci e sono pieni di premure. Io ordino delle cozze. Le mangio con le mani e per Hugo è un’ onta terribile, in un ambiente tanto signorile! Lui può permettersi di tutto al ristorante: può scoreggiare, ruttare, fare qualsiasi cosa per metterci a disagio o far ridere i presenti, ma io no, neanche per sogno! Sua figlia deve mangiare con la delicatezza di una principessa… In effetti, ricordo che disegna principesse, marchese e ogni sorta di altri personaggi. Sono in bianco e nero perché io possa colorarli. Cerco di non uscire dai contorni e lui è particolarmente attento alle mie scelte cromatiche… I viaggi fatti insieme restano nei miei ricordi come bolle di felicità. In quei momenti nostro padre è tutto per noi. Ogni giorno. Ogni ora. Dirige le operazioni, ci vuole mostrare delle cose, condividerle con noi, desidera che amiamo quello che lui ama. […]
Arrivederci. Prima di sprofondare nel coma, le ultime parole che mi ha detto sono state: «Non ti preoccupare, tuo padre sarà sempre al tuo fianco…». Questa frase è senza dubbio la cosa più importante e concreta che mi abbia lasciato, quella che mi permette di battermi ancora oggi, nonostante tutto. Arrivederci.
[Fonte: Repubblica.it – Silvina Pratt © Marsilio Editori Spa, Venezia]