C’era una volta la gavetta ed era una sorta di crudele periodo di iniziazione ad una professione. Ogni mestiere prevedeva un periodo più o meno lungo di gavetta, e tutti quanti lo sapevano. Era un’imposizione ingiusta, ma faceva parte delle regole del gioco e prima o poi inevitabilmente si concludeva con un’assunzione a tempo indeterminato. Raccontata così sembra quasi fantascienza, sembra di leggere le cronache di vita degli antichi romani, eppure fa tutto parte del nostro recente passato. Oggi, per la maggior parte dei giovani, l’obbiettivo primario è riuscire ad accedere alla gavetta al contratto di lavoro a tempo indeterminato ormai nessuno ci crede più. E’ un miraggio al quale i nostri genitori (loro sì assunti a tempo indeterminato…) ci hanno costretto a rinunciare per riparare alla loro incapacità di far marciar l’economia del paese. E’ una storia vecchia, ma sempre attuale: le colpe dei padri ricadono sui figli. I nostri discendenti parleranno di flessibilità così come noi parliamo delle disumane pratiche di lavoro della prima rivoluzione industriale. La conseguenza principale di questa forma strisciante di sfruttamento della gioventù è l’infelicità. Oggi i giovani sono profondamente infelici perché non hanno alcuna possibilità di realizzarsi professionalmente senza ricorrere a imbrogli o al solito clientelismo. Dato che non sembra esserci via d’uscita a questo meccanismo di sfruttamento – dal quale dipende sempre più strettamente la sopravvivenza stessa dell’Italia – servono urgentemente sogni per distrarre i giovani schiavi dalle loro frustrazioni.
CAMPIONARIO DEI SOGNI (COMPRESI QUELLI PROIBITI) Difficile per i giovani districarsi tra le tante illusioni precotte che offre il mercato. I più si accontentano del primo stupido passatempo, molto inseguono l’intramontabile binomio lusso/piacere. Qualcuno, andando contro tendenza, si appassiona all’arte. Un piacere vetusto che si pensava appartenente ad un passato remoto. Eppure, nonostante tutto e tutti, l’arte esiste ancora oggi. Ma qual è il senso dell’arte oggi? A cosa servono la letteratura, la pittura, il cinema e il teatro? Perché leggiamo e scriviamo e mettiamo in scena? Perché sentiamo questa necessità? Perché abbiamo bisogno dell’arte e non possiamo accontentarci tutti quanti della televisione? Per trovare delle risposte, forse. Di certo per farci altre domande ed è per questo che l’arte è pericolosa.
Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… è un libro, per l’esattezza l’ultimo lavoro di Aldo Nove ed è pericolosissimo. Essendo un libro non rientra nell’elenco delle evasioni facili e comode e quindi già di per sé andrebbe evitato. In più racconta la realtà dei giovani lavoratori atipici, degli ex co.co.co, dei lavoratori a progetto, degli stagisti a vita, dei laureati che fanno i camerieri, ecc. Credo sia chiaro a tutti perché è un libro che andrebbe evitato: istiga ad una qualsiasi forma di reazione allo sfruttamento. Questo e altri “svaghi” simili, tutti provenienti dal mondo dell’arte, sono sogni proibiti, sogni che è meglio non fare perché, di solito, precedono un brusco risveglio.
LA LISTA NERA Interinali, a progetto, stagisti, a tempo determinato, atipici. Tanti nomi per definire una cosa sola: il nuovo schiavo. La lista di questi fantasiosi appellativi potrebbe procedere all’infinito e, diciamocelo, in fondo ad essa potrei anche lasciare diversi spazi vuoti da completare a piacimento col proprio grado e mansione. Tanto ci siamo tutti dentro, è inutile negarlo. Tutti si chiarirebbe se riuscissimo ad ammettere che questa faccenda ci riguarda. Stiamo parlando di noi, di me di voi, della maggioranza degli italiani che non si sono inseriti in qualche rete clientelare e non hanno ancora barattato il cervello per quattro miseri euro. Al di sotto dei 1000 euro al mese ci sono laureati con il massimo dei voti. Ci sono ragazzi e ragazze (anche se ormai sarebbe meglio dire uomini e donne vista l’età anagrafica…) dotati di talento e un’ottima preparazione pratica. Hanno imparato l’informatica e le lingue, i laboratori e seguito tutti i seminari e poi? Quale tipo di occupazione li attende? Come e quanto sfrutteranno ciò che hanno duramente imparato? A cosa servono tutti i sacrifici dei genitori per pagare le tasse universitarie? I lavoretti nei supermercati per aiutare in casa? E’ poi così ingenuo pensare che sia giusto fare un lavoro che ci soddisfi, che ci rappresenti, ed essere pagati per questo in maniera adeguata? Non dovrebbe essere un diritto anche per i giovani italiani di oggi avere un contratto che non rammenti gli anni bui dello schiavismo?
L’OTTIMISMO E’ D’OBBLIGO Sono troppo ottimista lo ammetto, ma lo sono per sopravvivenza! Un lavoro decente ed uno stipendio che mi permetta di vivere dignitosamente non sembrano richieste così impossibili da accontentare. Eppure lo stesso mercato del lavoro, che oggi a noi le nega, per anni le ha concesse a molti, troppi forse. Ora qualcuno deve pagare gli sprechi del passato e quel qualcuno siamo proprio noi. Funziona così: la vecchia classe dirigente ha fallito e ora fa pagare a noi il loro fallimento, in compenso però nessuno dei gerontocrati si vuole fare da parte e lasciare il posto ai giovani che tanto ama sfruttare. Semplice, no? Siamo davvero pigri, inetti e disillusi come ci dipingono (e come, del resto, ci preferiscono)? Chi può dirlo. L’unica cosa certa è che farci sentire inutili e intercambiabili ci rende accondiscendenti e mansueti, come placide mandrie dirette al macello, disposti a sacrificare diritti faticosamente conquistati, famiglia e futuro. Esattamente ciò che desiderano i nostri sfruttatori.
EPPUR SI MUOVE Eppure qualcosa dentro di noi è vivo e comincia a farsi sentire: l’inguaribile amore per l’arte ed il suo mondo. E’ inutile negare che per molti di noi la passione artistica è stata, e continua ad essere, una vera salvezza, una boccata d’aria pura in un quotidiano asfittico e deludente.Rappresenta il bisogno di sognare, di lasciarsi andare anche all’impossibile. Andare al cinema o a teatro, scambiarsi libri e cd e poi irrimediabilmente farsi prendere dalla voglia di girare corti con gli amici, mettere in piedi un gruppo, far leggere a qualcuno quel racconto che avevamo chiuso in un cassetto e chissà… Sì, è innegabile: lo sognavamo tutti il successo, forse lo sogniamo ancor di più ora che rappresenta anche la libertà. Ma per la maggior parte di noi non è andata esattamente come sognavamo. Ma davvero allora abbiamo sbagliato a concepire l’arte unicamente come una via di fuga dalla realtà? Era un errore rifugiarci in essa come in una tana calda dove le delusioni non avrebbero potuto raggiungerci? Difficile risponde, ma una cosa è certa: è stato una scelta che stiamo pagando a caro prezzo. Così facendo abbiamo creato una distanza abissale tra ciò che viviamo e ciò che vorremmo raccontare, abbiamo innalzato un muro che spesso ci ha reso incomprensibili alle passate generazioni ma anche a noi stessi, scissi tra fantasia e necessità.
QUALCHE SUGGERIMENTO? Forse però proprio l’arte che ci ha condotto sulla cattiva strada può venirci in soccorso. Oggi finalmente questi “sogni proibiti” si fanno più frequenti, ossessivi e pretendono più che mai di rinnovare una loro antica funzione (comune sia al sogno che all’arte): raccontare e riflettere la vera natura della realtà. Sono molte e continuano ad aumentare quelle produzioni artistiche che non propongono più una fuga, ma una profonda e sincera immersione nella realtà, trovando il coraggio di raccontare la nostra vita vera e non solo quella sognata. In un clima che per certi versi ricorda gli anni del Neorealismo, sono nati libri, film e spettacoli che raccontano la dura vita del perfetto interinato. I primi prototipi prodotti da questo tentativo di rinnovamento artistico (e sociale) sono la già citata opera di Aldo Nove, il libro di Andrea Bajani Mi spezzo ma non m’impiego (storia della generazione dai 1.000 euro al mese), lo spettacolo portato nei teatri da Paola Cortellesi Gli ultimi saranno gli ultimi che spinge fino a disperate conseguenze un malessere diffuso, al film del regista Stefano Obino Il Vangelo di San Precario.
E ora cosa si fa? Si va avanti con i nostri stipendi da fame, quelli di cui ci vergogniamo come fossero la misura del nostro reale valore e del nostro fallimento come esseri umani. Si va avanti con i nostri diritti calpestati, rifiutati e dimenticati. Si va avanti senza una casa propria, senza una famiglia propria, senza la possibilità di diventare padri o madri. Si va avanti finché arriverà il giorno in cui non potremo più proseguire.