Marco puoi riassumere in due parole di cosa parla il tuo libro?
«Preferisco dirti cosa c’è dentro, come fossero gli ingredienti di una ricetta. Ci ho messo una grande truffa rifilata a duemila lavoratori, le lotte per difendere il lavoro, gli scontri fratricidi fra le diverse sigle sindacali e fra lavoratori, perché quando tutto precipita, le capocce sragionano. Poi ci sono le tensioni familiari che si creano quando si perde la stabilità economica. E c’è un protagonista che viene cambiato da queste difficoltà e che, da insensibile menefreghista, si trasforma in un sindacalista, seppure sui generis, che trova il modo per salvare i suoi colleghi e l’azienda. Inoltre ci sono la scoperta della scrittura come mezzo di resistenza e di sopravvivenza e la tenacia, il coraggio e la voglia di non mollare. Ma soprattutto c’è una visione del mondo che vede nei problemi uno strumento per conoscerci e per migliorarci. Sono i colpi di scalpello con cui Dio ci modella per renderci come lui ci ha concepiti. Tutti questi temi, poi, sono messi assieme e raccontati come un thriller. Perché quando a cinquant’anni ti ritrovi disoccupato e senza speranza, sei di fatto bello che morto».
Sbaglio dicendo che il tuo romanzo si potrebbe inserire nel filone della “letteratura industriale”?
«Non sbagli per niente. Però io lo collocherei più tra i romanzi storici. Perché racconta la mortificazione del lavoro, dei lavoratori e di conseguenza degli uomini che una politica troppo concentrata su se stessa e sulla difesa dei suoi privilegi sta permettendo in questo particolare periodo storico».
Se il boom economico raccontato da Bianciardi era considerato vita agra, questo “sboom” che descrivi nel tuo romanzo come si potrebbe definire?
«Un periodo di transizione. E’ evidente che il sistema non può continuare su questa strada. Un profondo cambiamento è indispensabile. O ricollochiamo gli uomini al centro della vicenda economia e politica, oppure il nostro Paese, ma più in generale tutto l’Occidente, imploderà. Abbiamo guardato il mondo attraverso un’ottica economico-finanziaria e non ha funzionato. E’ ora di cambiare. Per i prossimi anni ci aspetta un compito importantissimo: tracciare la “nuova-via” da seguire dopo i crolli delle ideologie, dell’industrializzazione, del consumismo, del Mercato, e della Finanza. Dove saremo come società occidentale fra dieci o venti anni? Questa è la domanda cui dobbiamo rispondere».
Perché, oltre alla cronaca quotidiana della crisi del lavoro, era importante raccontarla in un’opera di fantasia?
«Le notizie non ci toccano. Le statistiche ci lasciano indifferenti. Sono cose astratte, lontane. I numeri, anche se ci parlano di una realtà drammatica, sono sempre numeri. Sappiamo che la disoccupazione è salita. E allora? Sentiamo che ogni anno muoiono un milione di bambini per malnutrizione? Restiamo indifferenti. Perché quella sofferenza è sconosciuta, impersonale. Invece se incrociamo gli occhioni tristi di un cagnolino, ci commuoviamo. Per partecipare emotivamente alle sofferenze degli altri, abbiamo bisogno di sentirli vicino, di immedesimarci con loro. E la letteratura vi riesce benissimo. Riesce a farci vivere, nella nostra fantasia, le vite di persone lontane sia nello spazio sia nel tempo, oppure, addirittura, inesistenti. E’ per questo che ho scelto questa forma espressiva. Per raggiungere i sentimenti e, di conseguenza, le coscienze».
Ho notato uno stile di scrittura solido e strutturato in periodi lunghi. A mio parere è uno stile molto elegante, hai dei riferimenti letterari per quanto riguarda questo aspetto della scrittura?
«Guarda, non ci ho mai riflettuto. Io scrivo nella maniera che mi viene spontanea. Anche se sono consapevole che tutti i romanzi letti, i film visti e le pubblicità subite hanno influenzato il mio modo di raccontare e di costruire le frasi. Un modello di scrittura, però, lo avrei. Ed è quello tracciato da don Milani e dai suoi ragazzi nella loro “Lettera ad una professoressa”. Mi piace sia per il suo stile semplice, comprensibile, vero, sia per l’impegno civile e sociale che racchiude».
Possiamo aspettarci un altro romanzo di Marco Di Mico?
«L’ho già iniziato. Per adesso il suo titolo è: “Piovono nella notte gocce lontane”».
La recensione
La storia di Michele, cinquantenne egoista, borioso e menefreghista, alle prese con la disoccupazione e una crisi famigliare, è una parabola morale sul valore e sul significato del lavoro. La scrittura, strumento democratico di “autoanalisi”, giocherà un ruolo importante nella maturazione del protagonista. Di Mico tratteggia le vicende di Michele con uno stile elegante e molto preciso, il romanzo non tralascia nulla della soffocante e drammatica vicenda umana e lavorativa del protagonista.
Marco di Mico
La vicenda di un lavoratore “bastardo”
Medea edizioni, 352 pagine, 16 euro
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In Italia ormai il lavoro non è più un opportunità, ma un problema.
per gli imprenditori, per la politica e soprattutto per i lavoratori.
Voi ogni tanto vi occupate di lavoro in maniera intelligente, ma siete tra i pochi rimasti
auguri a tutti voi