Meditavo già da diverso tempo di intervistare G.L. D’Andrea ma non sapevo bene come proporglielo, non ama molto le interviste. Quando mi ha chiesto se mi andava di fare “due chiacchiere informali” in concomitanza con l’uscita di Wunderkind 3 – Il regno che verrà (in vendita dal 29 novembre), non me lo sono fatto ripetere due volte. Era come offrire del miele a un orso! Quello che segue è il frutto di uno scambio durato per diversi giorni. Lo pubblico nella sua forma più grezza e più sincera. Spero arricchisca voi tanto quanto ha arricchito me.
Quando ci sentiamo mi parli spesso di complotti e disgrazie imminenti, e il brutto è che di solito poi si avvera tutto. Diciamolo: probabilmente sei un realista, ma di sicuro non sei un ottimista. Questa volta però ti costringerò a pensare positivo, dimmi cosa c’è di buono in Italia per cui vale la pena di lottare e scrivere.
«“Complotto”… che brutta parola. Fa venire in mente l’Area 51, l’Uomo che Fuma e strani tizi che ti pedinano nella notte. Diciamo che mi piace essere lucido. Cercare, nel mio piccolo, di dare risposta ad una domanda che pare passata di moda: “Cui prodest”? La mia massima aspirazione è quella di essere un uomo lucido. Altro non si può fare di questa cosa che chiamiamo vita. La cosa buffa è che poi dietro al “cui prodest?” ci sono davvero galassie di Aree 51, Uomini che Fumano e strani tizi che ti pedinano… Dietro alla lotta e alla scrittura c’è la vanità, sempre. Non c’è un paese, non c’è un ideale. Si scrive per vanità e piacere. Per il piacere di buttare giù una storia, per il piacere di far vivere qualcosa a qualcuno. Si lotta per un mondo migliore, il più possibile giusto. Ovviamente la vanità sta nel pensare che ciò che è giusto per me sia giusto anche per te. Ecco perché molti rivoluzionari fanno la fine che fanno. Però, se lotti e scrivi in maniera sincera, se lo fai con lucidità e consapevolezza, allora scopri il vero motivo che sta dietro al sangue e al sudore, dietro anche alla vanità: la civiltà. Che è un altro nome di “umanità”».
Prima di conoscerti leggevo in Internet cose atroci sul tuo caratteraccio e per un po’ confesso di averti girato al largo per evitare guai. Poi ho letto i due Wunderkind e mi sono detto “fosse anche Barbablù, io D’Andrea lo devo assolutamente conoscere” e ne è valsa la pena. Tu dici spesso una cosa molto scomoda, inviti a pensare con la propria testa: possiamo ancora tornare a farlo o è troppo tardi?
«Io penso sia troppo tardi, caro Andrea. Abusando di un’immagine trita e ritrita, siamo sul ponte del Titanic. Quelli che abbiamo chiamato a comandarci hanno due compiti. Allungare il viaggio, allontanando di qualche anno lo schianto, e rincoglionirci alla grande. Visti i risultati devo dire che ci stanno riuscendo molto bene.».
Parafrasando Stephen King, se l’invidia fosse un acido, di te sarebbe rimasta solo la fibbia della cintura e qualche dente, lo sai vero? Alcuni, me compreso, ti invidiano le tue doti di scrittore: non c’è da vantarsene ma bisogna ammettere che un po’ di sana invidia è uno sprone a migliorarsi. Molti invece ti invidiano il contratto con Mondadori o il tuo agente letterario. Io penso dipenda da un fraintendimento su quello che è veramente uno scrittore, secondo te?
«Penso che le mie doti di scrittore, come dici tu, facciano gola a ben poche persone. Se mi dici che è uno sprone a migliorare, allora okay, mi sta bene. È un bel complimento sapere che il tuo lavoro spinge qualcuno a fare meglio il suo, non trovi? Per quel che riguarda Mondadori… auguro con tutto il cuore di ottenere ciò che desiderano. Io sarò sulla riva a guardarli passare. Arrivo alla tua domanda… certo che è un fraintendimento. E sarebbe da ridere se non si arrivasse a degli eccessi che, francamente, mi spaventano anche un po’. Ma che diavolo si pensa che sia fare lo scrittore? Significa soltanto scrivere libri. E un libro, alla finfine, anche se è il tuo libro, è pur sempre… un libro. Il resto sono sovrastrutture dettate dalla vanità (vedi che ci ricaschiamo?). Bisognerebbe ricordarsi che il 99,9% di noi “fa” lo scrittore. Solo una manciata di eletti, in un secolo “sono” scrittori. Il XX secolo è bello che andato, e dubito fortemente che ci sia in giro il manipolo di angeli del XXI°.».
Quando chiudo una storia entro in una specie di elaborazione del lutto: c’è un grande vuoto e l’impressione che quella potrebbe essere l’ultima storia. Come si supera questa specie di horror vacui? Conosci un trucco?
«Conosco la sensazione. Orrenda. Una storia ti prosciuga, ti svuota. Scrivere una storia è esaltante. Una sensazione grandiosa. Ma quando scrivi la parola “Fine”… Sono sempre stato fortunato, però, durava poco. Una settimana al massimo. Poi mi rendevo conto che c’era una vocina, dentro la mia testa che già iniziava a rimuginare su qualcosa di nuovo. Parlo al passato perché l’ultimo romanzo è stato… diverso. L’ho concluso un paio di mesi fa, un lavoro molto lungo, e adesso sono… in pace. È una bella sensazione. Ho riscoperto il piacere della lettura fine a se stessa. Mi mancava, ti dirò».
Da bambino credevo che un romanzo fosse semplicemente una storia molto lunga, tu che ne hai scritti un bel po’ (due pubblicati, uno in via di pubblicazione e un altro paio in attesa del momento giusto) spiegami cosa diavolo è un romanzo.
«Dovresti chiederlo a chi ha più esperienza di me. Penso che sia una specie di cammino. Un cambiarsi la pelle. Per chi la scrive, ma anche per chi la legge. Ma stiamo parlando di lana caprina. Stiamo usando delle metafore logore. Il vero problema è “quel romanzo è un romanzo sincero”? Perché è questo il dramma dell’ultimo secolo e dei secoli a venire, temo svaniranno i romanzi sinceri, soppiantati da cose che sembrano romanzi, profumano come romanzi, si muovono come romanzi, ma in realtà sono dei simulacri, dei baccelloni…»
L’impressione che ho io, correggimi se sbaglio, è che stiamo vivendo la fine dell’età dell’oro del fantastico italiano. Oddio, non è stata proprio un’età dell’oro in piena regola, non è stata quello che sono stati gli anni ’60 e ’70 per il rock, però qualcosa si muoveva, c’era un certo fermento e forse ci siamo illusi di essere vicini a una svolta che non c’è mai stata. Nel giro di pochi anni e andato tutto a farsi fottere, colpa della vanità?
«Anche. Ma non solo. È un discorso lungo, complesso. Innanzitutto ci sono un po’ di ambiguità da spazzare via. Per prima cosa l’idea che il “fantastico” sia roba da ragazzini. Un’idea che le case editrici hanno in testa a causa del fatto che chi ci lavora al 99% è laureato (se lo è) in economia e commercio, scienze delle comunicazione, ingegneria, agronomia, zootecnica, fisica, medicina, giurisprudenza (insomma tutto tranne che in Lettere, come ci si aspetterebbe – e chi risponde “Embè? Magari sanno il fatto loro” è pregato di farsi curare una carie da un geometra…) e il nome di (per dirne uno) Borges lo citano solo perché pensano sia un centravanti del Boca. Ed è anche un’idea che,finché i fan del genere non smetteranno di comportarsi come tali, sarà difficile da eliminare. Altro preconcetto da sradicare è che il fantastico italiano sia nato con Licia Troisi. Licia è una scrittrice di narrativa per ragazzi inserita nel filone del fantastico. Il vero sdoganatore del fantastico, in Italia, è stato Valerio Evangelisti. È Eymerich la nave rompighiaccio che ha permesso la minuscola esplosione di cui stiamo parlando. E lo ha fatto con forza e intelligenza davvero rari. Evangelisti, purtroppo, non ha mai raccolto in Italia quello che gli spetta. Allarghiamo al discorso e prendiamolo alla radice: NON esiste un fantastico italiano. Non esiste e non può esistere. Come non esiste una “narrativa” italiana. Esiste una narrativa scritta in lingua italiana. È stupido pensare che generazioni cresciute leggendo indifferentemente Stephen King, Soltzenycin, Borges, Murakami e via così possa partorire una “via” italiana (e sono ottimista, non voglio approfondire il problema di quelli che scrivono senza aver letto se non se stessi…). Che diavolo significa? Tornare agli angusti confini nazionali? Diventare le caricature di un’idea di Italia buona solo per tour-operator? Siamo in piena Weltliteratur, che ci piaccia o meno. Il resto sono banali trovate pubblicitarie. Ma… tornando a noi… la mini esplosione di cui parliamo è bella che finita, e non tornerà per parecchio tempo. I motivi sono semplici. Primo: la politica delle case editrici, sui cui si potrebbe parlare per ore. Saturare il mercato con prodotti che sono la fotocopia l’uno dell’altro. Impedire la crescita degli scrittori. Scarsa professionalità. E mille altre porcherie. Poi. Il provincialismo di una minoranza (e ripeto: minoranza) di lettori italiani che pensa che leggere sia qualcosa che li rende migliori di chi, invece, preferisce passare le giornate a guardare gli operai nei cantieri. Una minoranza che, però, si è impossessata della Rete azzoppando quello che sarebbe potuto essere un ottimo sistema per fregare in curva il marketing ufficiale creando validi canali di comunicazione alternativi. E poi gli scrittori, che spesso passano le ore (proprio come sto facendo io adesso) a parlare di meccanismi editoriali, marketing e cazzate varie, piuttosto che discutere della cosa in sé. Che poi… scrittori… francamente è imbarazzante vedere quanta gente si autodefinisce “scrittore”, siamo scribacchini, al massimo… Tutto questo, mescolato assieme, ha fatto l’effetto nitroglicerina, mandando tutto a rotoli. Un peccato, ma non troppo grave: il salto non ci sarebbe stato comunque. I numeri. Troppi pochi lettori per il fantastico italiano. Tutto qui».
L’orizzontalità è stata la bandiera dietro cui tanti autori si sono schierati. Internet, il rapporto alla pari con il lettore, la diffusione libera delle opere d’arte: tutte cose nobilissime che hanno prodotto risultati notevoli (penso al lavoro dei Wu Ming, dei KaiZen e di Lara Manni) e anche mostruosità di una demenza incredibile. Insomma, per rubare una battuta al Lester Bangs di Almost Famous, nonostante le buone intenzioni il risultato è stato che l’industria dell’editoria è diventata l’industria del più figo, dell’ultima moda, del marketing. Si cercano autori con solide “fanbase” e altre merdate del genere. Qualcuno, che considera i libri nient’altro che merce da vendere, non aspettava altro o mi sbaglio?
«Non sbagli. Fidelizzazione del cliente. Si chiama così. Marketing, del più bieco, allo stato puro. Lisciare il pelo alle masse un tempo si chiamava “populismo”. Il populismo era quello che portava il peones con la catena d’oro al collo e pessimi dopobarba a torturare innocenti all’Esma. Adesso pare essere stato sdoganato. Uno schifo. Ci sono giornate in cui mi chiedo per quale cazzo di motivo mi sono messo a fare lo scribacchino. E non è detto che duri ancora a lungo. Credimi: provo ribrezzo per quelli che si fanno scrivere i libri, quelli che scrivono per poter girare con un libro con il loro nome in copertina, per non parlare di quelli che fanno di tutto – davvero di tutto – pur di avere una recensione positiva. Ma quello che mi disgusta davvero, quello per cui mi sale la bile, è la disonestà di chi chiama tutto questo “democrazia”. I tre nomi che tu citi, Wu Ming, Kai Zen e Lara, sono l’unica parte decente di questa “orizzontalità”, persone che lo fanno perché ci credono sul serio, persone oneste, ma si tratta di una minoranza. Purtroppo? Non lo so se è un “purtroppo”. So che è così. So che è impossibile riuscire ad avere un reale dialogo pubblico, almeno attraverso la Rete (che poi perché uno vorrebbe mettersi a dialogare con me? Sono solo un tizio che scrive, come ce ne sono a milioni). E so anche che con la scusa dell’orizzontalità, c’è una larga maggioranza che pensa non solo di poterti sputare in faccia, ma di averne addirittura il “diritto”. Ecco, che se poi apriamo il discorso a questa storia del “diritto” non la finiamo più. E guarda che non parlo del mondo editoriale, che poco mi interessa, ti parlo del mondo-mondo. Della strada. L’Esma non è poi così lontana, nella civilissima Europa».
Ho un’altra domanda “tecnica” che credo potrebbe interessare molti. Parliamo della “tecnica dei foglietti”, serve per strutturare la trama di un romanzo e anche per mandare in crisi i matrimoni. La vogliamo raccontare a tutti? Ti va di contribuire all’aumento dei divorzi spiegandola?
«Per quel che riguarda la scrittura, come per la vita, applico una regola molto semplice: “Qualsiasi cosa faccia passare la notte”. Quello dei foglietti è il mio modo. Ogni scrittore (ne conosco pochi, in verità, cerco di tenermi il più lontano possibile…) ha il suo modo. Casa mia è letteralmente tappezzata di post-it su cui scrivo ogni dettaglio della scaletta. Mi “libera” e mi permette di vedere di più certi dettagli. È un sistema da serial killer, lo so e magari è anche un cliché, ma funziona – almeno per me. Poteva andare peggio comunque, immagina se mi mettessi a usare la vernice spray o le scarificazioni sulla pelle altrui. E comunque mica è detto che incrementi il numero di divorzi. Non i foglietti in sé, quelli magari fanno anche molto “charme”. I divorzi arrivano quando l’altra parte si rende conto che accanto alla parola “Ossessività” sul dizionario c’è la tua foto e che quei foglietti non sono lì come miele per fanciulle, ma proprio perché ti servono. Ecco, questo è il vero problema. Mi piacerebbe che un mucchio di gente se la mettesse in testa ‘sta cosa. Pubblicare un libro non semplifica la vita, la complica mostruosamente».
Ecco, parliamo di com’è la vita dello scrittore nella realtà. Molti pensano sia qualcosa tipo una rock star, però più intellettuale. Forse però uno scrittore, so di dire una banalità ma molti faticano a comprenderla, è un tizio che ha tutti i tuoi problemi più uno: deve scrivere tutti i santi giorni e, il più delle volte, nessuno gli darà un soldo per la sua ossessione. Ora, questa immagine si scontra con quella propinata da non so bene chi (il marketing?) dello scrittore superstar e la gente non sa decidere a chi credere. Nel dubbio credono allo scrittore superstar. Torniamo al discorso sulla vanità?
«Anche, ma non solo. Qui secondo me c’entra l’altro Grande Mostro: la frustrazione. Ci sono un bel po’ di persone che credono che la scrittura sia una specie di Gratta e Vinci. Pubblichi un libro e, magicamente, ti ritrovi con la piscina e la Ferrari. Non è così. Fare lo scrittore significa seguire una passione. Remare controcorrente. È MILLE volte più frustrante di una vita senza scrittura. Scrivere significa perdere un sacco di tempo. Ma davvero un sacco. Lambiccarsi il cervello su cose che al 99,9% dell’umanità non interessano un tubo. Significa perdere un sacco di amici. E questo è solo la parte divertente, cioè scrivere. Poi c’è la parte peggiore: pubblicare».
Una cosa che mi ha sempre colpito molto del tuo modo di scrivere (e credo sia la vera cifra del tuo talento) è che il 40% delle tue storie è messo nero su bianco in un libro, il rimanente 60% è stampato nella testa di chi ti legge. Quello che ometti sulla pagina viene integrato in maniera naturale (e direi anche stupefacente) dal lettore, a volte sembra che tu scriva parole d’ordine segrete che mettono in moto meccanismi mentali sconosciuti in chi ti legge. È merito della scuola di Lovecraft?
«Non ne ho la più pallida idea. Se così funziona per te non posso che esserne contento. Lovecraft è stato un grande fonte di ispirazione per il W, ma il W…»
Parliamo del Wunderkind: io l’ho trovato nella sezione ragazzi della libreria sotto casa. Fortunatamente ne avevo sentito parlare e sapevo cosa aspettarmi, pensai che quella collocazione fosse frutto di un banale errore della titolare. Indagando sulla questione ho capito che invece si trattava di un’indicazione precisa: qualcuno in cima alla montagna associava quel libro alla saga Harry Potter. Ti dico quali sono i punti in comune tra il W. e i libri sul maghetto della Rowling: in entrambe le storie c’è un ragazzino, in entrambe le storie c’è la magia, in entrambe le storie c’è un “vecchio mago”, in entrambe le storie c’è una versione “magica” di una capitale straniera. Poi, avendo la pazienza e il piacere di leggere il Wunderkind, ci si rende conto che le due saghe non potrebbero essere più lontane tra loro. Visto che prossimamente uscirà il terzo volume del Wunderkind, vogliamo dirlo una volta per tutte che non è un libro per ragazzi e non ha nulla a che spartire con Harry Potter?
«Ti regalo uno scoop. In cima alla montagna non c’è nessuno. Deserto. Vuoto cosmico. Non c’è un “Grande Timoniere” che indica la via. Non c’è nessuna bussola. Solo una massa di funzionari kafkiani che vivacchiano alla giornata. Ma torniamo a noi… Quando decisi di affidare il Wunderkind a Mondadori il progetto era chiaro: provare ad “alzare il tiro”. Pubblicare un libro che proponesse al lettore una complessità ed un linguaggio cui non era abituato. Insomma, (tornare a) rendere “adulto” il genere. Tanto per la cronaca: non so se hai notato ma in tre volumi la parola “magia” viene usata una sola volta. Comunque, affidarmi a Mondadori è stato uno dei peggiori errori della mia vita. In un meccanismo in cui la mano destra non sa quello che fa la mano sinistra si è innescato un circolo vizioso che ha avuto come risultato il Wunderkind accanto a Geronimo Stilton. O a Harry Potter. Poi si è arrivati a sfiorare il ridicolo. Ovvero, spingere per trasformare la trilogia in un simil Harry Potter per DAVVERO. Le pressioni sono state mostruose, mi sono stati proposti dei tagli a dir poco offensivi. Ho retto, quello che si legge nel W è roba mia (a parte quel maledetto Glossario alla fine e il titolo del secondo volume) che niente ha a che spartire con le geniali trovate del marketing. Si è arrivati, per farla breve, alla paradossale situazione in cui la mia casa editrice faceva di tutto per mettere i bastoni fra le ruote ad un libro che aveva fortemente voluto. La cosa buffa è che, invece, il W è andato meglio delle aspettative e ti parlo di venduto effettivo, non di rese. Ah, i bizanitinismi gesuitici… mi fanno morire dal ridere! All’estero poi… All’estero il W è stato accolto molto bene, sia dalla critica che dal fandom. E adesso questa cosa del W3…»
C’è una grossa novità sulla forma che Mondadori ha scelto di dare al Wunderkind 3, l’editore ha deciso di pubblicare la storia in formato digitale. Parliamo quindi di un e-book che immagino sarà disponibile (dal 29 di novembre) sulle principali piattaforme di vendita degli e-book. Sei sempre stato molto critico verso la presunta “rivoluzione” che l’e-book avrebbe dovuto portare nel mondo dell’editoria italiana (all’estero, per quanto ne so io, non vedono l’ora di stamparlo il Wunderkind 3!) ora, tuo malgrado, ne fai parte. È una nuova sfida per te o semplicemente una decisione dell’editore che non condividi?
«Sono due discorsi distinti. Per prima cosa parliamo dell’ebook in generale. Ovvero dello 0,05% del mercato editoriale europeo. Una percentuale ridicola destinata e salire di qualche punto e poi crollare miseramente. La cosa che mi fa imbestialire è la facilità con cui un sacco di gente ha visto nell’ebook un modo “nobile” per propagare la propria incapacità di costruire un testo che avesse i requisiti minimi di pubblicazione. L’ebook renderà il mondo più democratico! Cazzate. Se non siete capaci di scrivere qualcosa di decente cambiate hobby, è molto più salutare. Ma per la miseria, lasciate perdere la democrazia e tornate a giocare con i soldatini. L’ebook non è affatto democratico, anzi, non fa che aumentare il divario fra case editrici che si potranno permettere una maggiore esposizione dei propri prodotti a discapito di quelle, più piccole, che verranno ingoiate dal mare magnum della Rete. Il tuo testo autopubblicato non avrà alcuna spinta promozionale, zero. E tanti saluti alla democrazia tanto sbandierata. Certo, potrai mettere “scrittore” sul tuo biglietto da visita, cosa che fa molto intellettuale… Sul mio ho scritto “pescatore di tonni”, tanto per la cronaca. Aggiungi altre due cose, molto velocemente. Primo: gli autori (che sai, qualcosa sul libro che stai leggenda hanno fatto, no?) perderanno sempre di più potere contrattuale (quelli che dicono che gli scrittori prenderanno il 70% del prezzo dell’ebook… Diosanto, ma ‘sta gente lo usa il cervello? Da quanto in qua un’azienda è un ente benefico?) e questo significa che ci sarà sempre meno professionismo in giro. Non so tu, ma se penso che il mio scrittore preferito invece di dedicarsi al 100% al suo prossimo libro in questo momento stia facendo straordinari mi girano le palle. Certo, c’è sempre il caro vecchio sistema di trovare un mecenate, no? Pensa che meraviglia: l’apicellizzazione della letteratura. Apicellizzazione che verrà favorita anche dalla diminuzione dei poli editoriali. Ein Volk, ein Reich… Seconda cosa: un ebook, tu non lo compri, lo noleggi. Ciò significa che io te lo posso togliere quando e come mi pare. La cultura al popolo, n’est pas? Ma io sono un vecchio dinosauro e per di più miope, che ci vuoi fare? Arriviamo al sottoscritto. Ho due sole parole per l’affaire Mondadori: no comment. Meglio, molto meglio un grigio no comment, dammi retta…»
Quando mi capita di trovare recensioni tedesche o olandesi al Wunderkind rimango sempre impressionato dall’ottima accoglienza che questa serie sta ricevendo all’estero. Penso sia una cosa di cui andare molto fieri considerando anche il fatto che gli autori italiani che hanno avuto la stessa sorte sono pochissimi. Mi torna in mente il vecchio adagio “nemo propheta in patria” e anche Joseph Conrad, il polacco che ha insegnato agli inglesi come doveva essere scritto un romanzo in inglese. Diciamo più semplicemente che come scrittore hai una spiccata tendenza all’internazionalità nei contenuti e nella forma che all’estero apprezzano e che cozza con il provincialismo italiano. Cosa ne pensi?
«Mah, ti ringrazio, ma non scomodiamo Conrad. È vero all’estero il W sta andando decisamente meglio, ma non credo sia merito del testo, penso sia merito delle case editrici che probabilmente hanno capito il progetto e hanno cercato di lavorare di conseguenza. È troppo facile sparare sull’Italia, talmente tanto facile che puzza di bella scusa per non muovere il culo e darsi da fare. E poi c’è la bella (ancora) vanità dell’italiano che adora ‘sta storia dei cervelli in fuga, se non altro perché significa che i cervelli c’erano e che permette chi sta all’estero di sparare sentenza a destra e a manca. No, non ci sto. L’Italia è e deve diventare un paese culturalmente trainante, lo è stato in tempi anche recenti (nessuno si ricorda di quel signore che si chiamava Sergio Leone, tanto per dirne uno?) e non vedo perché non si possa fare di nuovo. E lo si può fare solo facendo squadra. In questo senso la storia del W3 mi ha aperto gli occhi sul reale desiderio di fare gruppo, non per leccarsi le terga vicendevolmente, ma per imparare l’uno dall’altro. Non per scambiarsi recensioni (per quel che valgono, poi…) ma perché quello che ho appreso te lo presto e tu mi restituisci altre cose che non so. Il W3 è stata un’esperienza istruttiva, molto istruttiva».
Torniamo allo stile di scrittura che hai usato nel Wunderkind. Come ti accennavo prima, io ho l’impressione che tu “colpisca per via indiretta”, richiedi una partecipazione emotiva del lettore alla narrazione. È un approccio alla scrittura che è stato criticato dai “puristi della manualistica di scrittura fantastica” che non assaggiano niente senza sapere esattamente tutti gli ingredienti di cui è composto. Io credo che la tua sia una strada alla narrazione che ha come base di partenza un’idea molto bella e rispettosa del lettore. Per restare in metafora culunaria: non gli servi un piatto dicendogli “ecco, mangia”, lo prendi a braccetto e gli dice “dai, cuciniamo qualcosa insieme… conosco un’ottima ricetta”. Mi sbaglio?
«Il Wunderkind è scritto in maniera “analogica” e c’è un sacco di gente a cui non piace l’idea di doversi abbandonare, vogliono avere tutto sotto controllo. Vogliono essere stupiti, ma allo stesso tempo vogliono sapere tutti i trucchi. I figli dei “contenuti speciali” dei DVD, che io detesto. Non mi interessa sapere come Rambaldi ha fatto Alien, mi interessa Alien. Il resto va bene per le serate annoiate di periferia. Quando scrivo cerco di pensare il meno possibile ai lettori. Sono io l’unico lettore e lo scopo è quello di scrivere qualcosa che possa piacere a me. Il Wunderkind è nato proprio così, in questa maniera. Inoltre è un esordio e gli esordi sono interessanti, e qui ti parlo da lettore che si spara un centinaio buono di titoli l’anno, perché ti permettono di vedere le influenze e la crescita di uno scrittore».
Il terzo Wunderkind (Il regno che verrà) conclude definitivamente la serie? Ci sarà mai un Wunderkind 4?
«No, mai. Il Wunderkind è concluso. Quella è la fine, che piaccia o meno. È cupo, lo so, ma che ci posso fare?»
Parliamo della fine della trilogia del Wunderkind. In una tua nota diffusa via Facebook dicevi che con l’uscita del W3 “chiudevi il cerchio” e avresti abbandonato un certo tipo di “orizzonti”. A me suona un po’ come quando, alla fine delle superiori, si salutano i compagni di classe ben sapendo che molti li perderai per strada per rincontrarli anni dopo al supermercato senza sapere bene se sarebbe il caso di salutare o sarebbe meglio fingere di non riconoscerli. Sto lavorando troppo di fantasia? Vuoi spiegarmi meglio cosa intendevi dire?
«Inutile continuare a percorrere lo stesso tratto di strada, bisogna andare avanti. Respirare roba nuova. Non mi va di continuare a scrivere lo stesso libro per anni e anni. Ho una bassa soglia di tolleranza alla noia. Trovo ridicoli quegli scrittori che non fanno altro che scrivere e riscrivere lo stesso romanzo a vita. Il mio piccolo contributo al “fantastico” l’ho dato con il W, chi lo vuole leggere può farlo. Adesso vado avanti. Lo scopo non è riuscire a scrivere un romanzo… ecco, questa è una cosa davvero importante che non è mai sottolineata abbastanza… chiunque con un briciolo di volontà, una grammatica e un minimo di lessico può scrivere un romanzo… la cosa importante è scrivere qualcosa che mi soddisfi. Che mi soddisfi mentre la sto scrivendo. Lo scopo è questo, il resto è fuffa. Sento il bisogno di nuovi orizzonti, e che siano i più ampi possibili. Anzi, ti dirò di più, penso di aver bisogno di una bella pausa. Non dalla scrittura, ma dal mondo dell’editoria e del fandom. Voglio capire se ne vale davvero la pena. Sono stanco, Andrea, davvero stanco».
Il tuo futuro di scrittore ha preso una strada veramente stupefacente. Io ho avuto la fortuna di avere qualche assaggio di quello che stai cucinando e sinceramente penso tu abbia trovato le tematiche e le forme più adatte a esprimerti al meglio, ho visto una crescita professionale indescrivibile. Posso garantirti che i nuovi lavori di D’Andrea stupiranno parecchio i suoi vecchi lettori in Italia e all’estero e penso che lo faranno conoscere a molti lettori nuovi. Di che cosa sto blaterando? Ti andrebbe di dare qualche anticipazione?
«Sto semplicemente continuando a fare quello che mi piace fare. Scrivere. Tirare fuori delle storie e buttarle giù, cercando di migliorare di volta in volta. Andare alle radici, toccarle, ascoltare quello che hanno da dire. Metterci l’anima, nella maniera più onesta possibile. Tutto qui. Sono contento che gli inediti ti siano piaciuti, se e quando verranno pubblicati magari ne parleremo con più calma. Al momento, come ti dicevo, preferisco starmene lontano dagli schiamazzi. Scrivere mi riesce più facile con la finestra chiusa».