Un nuovo declassamento per i conti italiani: dopo S&P’s, è il turno di Moody’s e Fitch. Ancora una volta, le famigerate agenzie di rating formalizzano la sfiducia dei mercati nei confronti dell’Italia e delle sue capacità di ripagare il proprio debito. La situazione finanziaria si aggrava ed è ormai evidente quanto il destino dell’eurozona tutta sia legato con doppio filo alle capacità di solvenza nazionale. Alla notizia, il Presidente del Consiglio Berlusconi si è ostinato ad affermare che il declassamento «non cambia nulla». Eppure è compito della politica, di quella “buona politica” di cui ci raccontano i filosofi e per cui i manuali universitari spendono parole e tabelle, prendere coscienza delle condizioni in cui il Paese, l’Europa e i mercati globali si trovano, e agire di conseguenza. Anche attraverso misure drastiche o impopolari: ciò che deve essere chiarito ai cittadini cui si chiedono sacrifici sempre più gravosi, è la nobiltà (o almeno l’utilità) dello scopo da perseguire. Una classe dirigente come la nostra, confusa, preda di lotte intestine per la leadership e la conservazione della carica, autoreferenziale e populista, ha perso di vista questa necessaria correlazione tra gioco e candela. Semplice ma legittima valutazione popolare: deve valerne la pena.
I dieci anni di stagnazione hanno eroso i risparmi privati, consumato le risorse pubbliche e fatto spazientire gli investitori. Gli imprenditori, i pochi ottimisti che non hanno ceduto ai benefici immediati e innegabili della delocalizzazione, si confrontano con la dura conciliazione tra calo dell’attività produttiva e responsabilità nei confronti dei propri dipendenti. La disoccupazione cresce, il futuro e il progresso sono ormai considerati concetti divergenti. Questa è l’Italia della recessione, bellezze: l’hanno negata fino all’altro ieri, oggi ci sbattono in faccia una realtà difficile da accettare, ma cui dovremo imparare a reagire in tempi brevi e in modo non indolore. Urgono provvedimenti rapidi, mirati e concreti: li reclamano i lavoratori, i sindacati e gli industriali, – Camusso e Della Valle si trovano sorprendentemente dallo stesso lato della barricata – l’opposizione e molti membri di un post-governo che è ormai un patchwork di sostenitori occasionali per un leader sempre più spento e sempre meno tale.
Tornano a tormentarci i filosofi e le teorie sul bene comune; oppure, semplicemente, democraticamente, constatiamo quanto l’inadeguatezza (anche di fronte a una crisi che ha cause profonde e in parte a noi esterne) non possa trasformarsi in sfrontata negazione dell’evidenza, in arrogante occupazione delle istituzioni in nome di una scelta elettorale che non può essere considerata irreversibile. I cittadini hanno votato una maggioranza parlamentare, che ha deciso di sostenere un governo. Nulla vieta al parlamento di produrre maggioranze diverse in sostegno all’esecutivo, ma è inconcepibile che pur di raggiungere tale risultato ci si trasformi in alchimisti e si accetti di subordinare il sostegno governativo a un manipolo di parlamentari chiaramente interessati – nonché adeguatamente ricompensati. Non è grottesco che l’Assemblea si occupi in prevalenza di provvedimenti riguardanti i membri della classe politica e i loro affari – magari con il fine rendere la politica una sorta di scudo dalla giustizia – quando il Paese versa nell’emergenza finanziaria?
Democrazia vuol dire reversibilità delle scelte elettorali, ovvero alternanza: Berlusconi deve capire che quella che lui tra le righe chiama “investitura popolare” (tecnicamente, il capo del governo è invece designato dal Presidente della Repubblica, dietro indicazione della maggioranza parlamentare scelta dai cittadini) non è un’autorizzazione a fare i comodi propri, altrui o a non far nulla, per i cinque anni di durata della legislatura.
Democrazia significa partecipazione: gli elettori non possono essere condannati a subire una scelta effettuata ormai tre anni or sono, quando sussistevano ben diverse condizioni interne ed internazionali. Nel frattempo, infatti, i cittadini hanno continuato a partecipare alla vita politica del Paese, che non si esaurisce nei due giorni della tornata elettorale, ma si compone di manifestazioni, eventi culturali, think-tank, satira, mobilitazione online, referendum e proposte di legge. Spesso, è stato espresso un chiaro e trasversale dissenso nei confronti dell’impronta data dal governo all’indirizzo politico. Un disaccordo che è sfociato in un’opposizione extraparlamentare composita e diffusa, che è letteralmente caduto nel vuoto. La passività, caratteristica assunta negli ultimi decenni dall’elettorato italiano, tuttavia oggi sfuma gradualmente in una ripresa di interesse per i temi politici ed economici (nostro malgrado, visto la crisi che ci colpisce), nell’indignazione e nella protesta: anche le piazze italiane, stranamente escluse dalla mobilitazione internazionale in proposito, potrebbero presto riempirsi di tende e saccopelisti improvvisati ed esautorati, appartenenti ai ceti e agli orientamenti politici più diversi. La crisi compatta il fronte popolare e si rafforzeranno le istanze di cambiamento. Adesso, la gente si esprime sussurrando: a breve, sarà più assertiva ed esigente; si passerà poi, in assenza di contromisure efficaci, agli striscioni, ai fischi e alle urla di protesta.
La democrazia implica senso di responsabilità. Ovvero, la capacità di riconoscere umilmente i propri sbagli, individuarne le conseguenze e i margini (oggi ristretti) a disposizione per sanarli. Ostinarsi ad adottare incomprensibili strategie populiste, rievocando le famigerate elezioni trascorse, autorizza i detrattori a bollare l’attuale esecutivo come “irresponsabile”.
Democrazia significa governo della più forte minoranza, non governo della maggioranza: questa consapevolezza (per alcuni inaccettabile) dovrebbe sempre accompagnare il leader dell’esecutivo nella sua attività di orientamento della politica. La sottintesa capacità di negoziare è essenziale, e ancor più necessaria quando un Paese si trova in una fase critica come quella attuale. Le rivalità politiche e le aspirazioni personali dovrebbero essere messi da parte, i temi di rilevanza generale maggiormente attinenti alla crisi (fisco, pensioni, conti pubblici, produttività) dovrebbero essere quotidianamente all’ordine del giorno.
In caso contrario, di fronte ad una classe dirigente totalmente autoreferenziale e avulsa dalla realtà dei cittadini che dovrebbe rappresentare, il governo della più forte minoranza diviene ancor più intollerabile e, in senso lato, perde il requisito di democraticità che le leggi di funzionamento del sistema gli attribuiscono.
I filosofi e gli scienziati politici non possono governare. La politica richiede doti di leadership, di carisma e comunicatività che non sempre gli esponenti delle prime due categorie possiedono. Eppure, coloro che hanno un compito sociale così cruciale (dirigere la collettività) dovrebbero porsi domande morali, etiche e tecniche sui fondamenti della democrazia e del bene comune. I nostri governanti dovrebbero impegnarsi per elevare la società, spingerla verso il raggiungimento di obiettivi generali di sviluppo e progresso, proteggerla dagli scompensi interni ed esterni che potrebbero destabilizzarla.
Nei momenti di crisi in particolare, non può e non deve diffondersi l’idea che la democrazia si fondi su ideali utopici, dunque fallimentari perché irrealizzabili. Rischiavamo di scivolare nel torpore partecipativo, nell’arrendevolezza di fronte ad una politica che presenta le stesse dinamiche e gli stessi protagonisti dal 1994; ma forse le incertezze economiche riguardo al nostro futuro e quello delle prossime generazioni possono svegliarci. Un cambiamento drastico nei volti e nei linguaggi della politica, nelle priorità e nelle strategie attuative, potrebbe essere un segnale positivo, incoraggiante per i cittadini (lavoratori ed imprese) e per i mercati (investitori, debitori e… agenzie di rating). Gli attori di questo drammatica pièce teatrale sarebbero inebriati dalla speranza in una riforma rigorosa e sistemica, che alle attuali condizioni nessuno ha il coraggio (o la volontà?) di perseguire.
Constatare che è giunto il momento di farsi da parte consentirebbe a Berlusconi (leader ormai finito, impossibile da ricandidare e, in alcuni casi, perfino politicamente ingiustificabile nel presente) di lasciare la scena con uno scampolo d’onore; l’ulteriore ostinazione trascinerà nel fango non solo lui e il suo governo, ma anche la memoria del suo personale ventennio.