Venerdì 16 maggio 2008, una delegazione di Caritas Italiana é stata ricevuta al Viminale, su richiesta del Ministro dell’Interno Onorevole Roberto Maroni, per un confronto in ordine ai temi della sicurezza. Qui di seguito la nota, diffusa da Caritas Italiana, sulle questioni trattate nell’incontro. Medeaonline ne condivide i contenuti e i toni; per queste regioni si permette di diffonderne il testo.
QUESTIONE SICUREZZA
PREMESSA
Il costante lavoro di coordinamento svolto da Caritas Italiana, attivamente impegnata sui temi della giustizia sociale, consente un monitoraggio ampio e puntuale circa le criticità emergenti dalle oltre 220 diocesi, che promuovono sul territorio migliaia di servizi a favore dei più bisognosi.
In particolare, sul tema dell’immigrazione, il collegamento e la collaborazione fra le Caritas diocesane è sempre vivo e trova un suo naturale luogo di confronto nel Coordinamento nazionale, all’interno del quale sono emerse alcune linee di indirizzo che tornano certamente utili nell’attuale dibattito sulla complessa questione della sicurezza.
Prima di tutto però due considerazioni:
1) i nostri territori si caratterizzano sempre più per una somma di precarietà (dall’immigrazione ai nomadi, dalla mancanza di lavoro al problema degli anziani soli o ancora della malattia, fisica e mentale, dallo sfruttamento alle facili precarietà, …) che contribuiscono ad alimentare, in numerose situazioni, il loro progressivo degrado, e costituiscono una miscela potenzialmente esplosiva in un tessuto apparentemente fuori dal controllo politico e sociale;
2) va anche ribadito che Caritas Italiana, le Caritas diocesane e tutto il mondo cattolico hanno sempre affrontato la questione tenendo insieme l’accoglienza doverosa con la sicurezza e ragionando in questi termini sia sull’immigrazione in generale che sulle più ampie tematiche del disagio. Il mondo cattolico non ha mai perso tempo a parlare di accoglienza buonista, ha invece cercato, anche a livello locale, la collaborazione con gli enti pubblici e le forze dell’ordine, con l’obiettivo generale di sviluppare forme di collaborazione e concertazione permanente e far operare tutte le componenti interessate alla soluzione del problema in modo sinergico.
PER UNA POLITICA DELLA SICUREZZA: ALCUNE PROSPETTIVE
Ci preme qui evidenziare alcuni criteri per politiche ragionevoli e verificabili che possono contribuire a contrastare degrado e insicurezza.
a) Leggere i fenomeni. Se non si lavora a partire dai fenomeni effettivi, non si trovano soluzioni durature, ma si enfatizza il senso di insicurezza.
b) Sviluppare forme di concertazione tra istituzioni, servizi, soggetti sociali e reti territoriali. Pensare di affidare al solo intervento repressivo la lotta ai fenomeni di degrado è una semplificazione assolutamente irrealistica. Identificate le questioni da contrastare, solo un rapporto virtuoso con le realtà territoriali, in termini di confronto, verifica, sollecitazione, potenziamento di quanto è già presente, rende duraturo ed efficace un intervento.
c) Educare e promuovere responsabilità diffusa. Le politiche che hanno la pretesa di incidere sulla qualità della vita a livello locale, o passano anche come contenuti dentro la quotidianità delle agenzie educative del territorio, o rimangono inefficaci. Scuola, associazionismo, comunità cristiane, famiglie, realtà culturali, istituzioni pubbliche debbono essere sollecitati e coinvolti nelle forme e nei modi dovuti e sviluppando tutte le sinergie possibili.
d) Rafforzare la credibilità e l’efficacia delle istituzioni. Chi in questi giorni ha sostenuto la necessità di tenere presenti anche altre priorità non ha torto. Se lo “stato” in un quartiere periferico di una grande città è una scuola semidiroccata, servizi introvabili, inaccessibili e inesistenti o una rara e fugace pattuglia di polizia, quale credibilità hanno eventuali pacchetti sicurezza? Non si tratta di rinviare ogni cambiamento a irraggiungibili riforme strutturali, ma di tenere sempre presente i diversi livelli delle questioni, con una capacità di interconnessione dei fenomeni e delle opportune risposte.
e) Intervenire convintamene in molteplici progettualità d’integrazione. Riflettere e confrontarsi sui viaggi della speranza e la globalizzazione e sulle strategie di integrazione è uno straordinario test per capire di quale idea di società, di politica, di città, di comunità sociale e religiosa siamo portatori. Tutto questo però impone un minimo di rigore intellettuale e una capacità di leggere complessivamente il fenomeno:
– non si può essere contemporaneamente per una società aperta, globalizzata e considerare di piena efficacia politiche di puro ordine pubblico che finiscono per avvitarsi in spirali di mera carcerizzazione;
– non si può esibire il tema dell’integrazione, non riflettendo contemporaneamente – soprattutto a partire dai territori – su cosa effettivamente comporti costruire e incrementare relazioni tra diversi, favorire fiducia tra diversi, accoglienza tra diversi nei quartieri, nei paesi, nei servizi.
Tutti sappiamo che i processi sociali, religiosi e culturali sono lenti, hanno bisogno di cura, di accompagnamento, di costante aggiustamento del loro percorso. E chiunque ha il compito di occuparsene deve imparare i tratti di quella pazienza solidale, giusta e, se necessaria, severa che accompagna con cura lo sviluppo, la promozione e la crescita di una cultura dell’accoglienza, dell’integrazione, dell’intercultura. Non serve a nessuno l’occasionalità: dell’uno e dell’altro tipo.
PACCHETTO SICUREZZA
Proprio alla luce di quanto detto riteniamo che l’adozione di qualsiasi scelta politica su un tema così delicato debba essere ispirata da un realismo che miri a risolvere questioni e non a inasprirle, pur nella consapevolezza che alcune volte occorre assumere una posizione decisa per tentare di superarle.
Un realismo che si dovrà sostanziare nell’adozione di misure non solo ritenute efficaci nelle intenzioni, ma anche e soprattutto percorribili nei fatti e durature, in un quadro di valori ritenuti irrinunciabili a partire dal rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Questo, evidentemente, implica che le future scelte politiche non possano oltrepassare, né muoversi in maniera dissonante o potenzialmente contraria, ai principi cardine dell’ordinamento nazionale e internazionale.
Con riferimento alla proposte emerse in questi giorni circa l’approvazione di un decreto contenente misure volte a intervenire sul tema della sicurezza, vogliamo evidenziare i seguenti spunti di riflessione e confronto:
– sull’ipotesi di prevedere il reato di immigrazione clandestina, ribadiamo la nostra contrarietà, come già sostenuto nel 2002, all’epoca della discussione per la riforma del T.U. n. 286/98 intervenuta successivamente con la l. Bossi-Fini. Si tratta di una misura sproporzionata rispetto alla condotta, che abbassa eccessivamente la soglia di intervento penale fino a ricomprendere fra i delitti mere forme di irregolarità amministrativa. Peraltro, una previsione di questo tipo ha come presupposto che ad ogni clandestino corrisponda un criminale, circostanza non avallata dalla realtà dei fatti né dai dati disponibili. Inoltre l’esperienza sul campo non depone a favore della capacità dissuasiva di un simile intervento penale: i fattori di spinta delle migrazioni non verrebbero scoraggiati mentre invece si ingolferebbe il sistema giudiziario e carcerario, a discapito di questioni di maggior rilievo. È fatto noto che i ritardi della nostra giustizia sono già stati oggetto di censura e sanzione da parte dall’Unione europea, così come la mancata regolamentazione legislativa della condizione dei richiedenti asilo non fa onore al nostro Paese, nonostante pratiche di accoglienza consolidate e organizzate;
– la previsione di allungare il periodo di trattenimento nei CPT fino a 18 mesi contrasta con la posizione più volte espressa da Caritas Italiana e contenuta nelle conclusioni del Rapporto De Mistura, ovvero di andare verso il graduale superamento di questi centri nell’ottica di una migliore gestione del fenomeno. In questo senso, l’eccessivo allungamento dei tempi, oltre a risultare troppo dispendioso, appare configurare una forma di detenzione, impropria rispetto alla loro prima finalità: quella di consentire l’individuazione e il successivo rimpatrio dei cittadini stranieri irregolari. Inoltre un’operazione di questo tipo implicherebbe un investimento economico notevole che determinerà nuovamente lo spostamento delle risorse economiche destinate all’integrazione verso un’attività di contrasto e di controllo già censurata a più riprese dalla Corte dei Conti;
– il rafforzamento dei rapporti con i paesi d’origine degli immigrati residenti in Italia è un obiettivo prioritario che potrà dare risultati migliori rispetto al potenziamento delle misure di controllo dei confini marittimi che, pur necessarie, non sono riuscite a prevenire le tragedie del mare purtroppo ancora frequenti.
La revisione, in senso restrittivo, dell’istituto del ricongiungimento familiare non va invece, a nostro avviso, nella giusta direzione, non solo perché illegittima – in quanto contrasterebbe con la direttiva europea che ha già determinato la modifica della legge Bossi-Fini – ma anche perché la famiglia costituisce il cardine più importante del radicamento sul territorio. Ostacolare i ricongiungimenti familiari significa creare nuovi ostacoli al corretto inserimento degli immigrati. Preme ricordare come il Santo Padre ha auspicato che “si giunga presto ad una gestione bilanciata dei flussi migratori (…) cominciando con misure concrete che favoriscano l’emigrazione regolare e i ricongiungimenti familiari”. E, in piena sintonia con queste parole, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo messaggio dello scorso 30 ottobre alla Presidenza del Dossier Caritas-Migrantes, ha auspicato “una politica di apertura verso l’immigrazione regolare e di integrazione nel
quadro dei diritti e delle regole del nostro sistema democratico”.
In conclusione, appare prioritaria l’esigenza di non inasprire ulteriormente il clima intorno al problema sicurezza, altrimenti il rischio è quello di una deriva incontrollata, soprattutto verso alcune nazionalità. A questo proposito l’immagine restituita dai media circa la realtà dei romeni e dei rom in Italia è pesantemente fuorviante in quanto lega alle attività criminali di una minoranza, il destino della stragrande maggioranza dei cittadini romeni che vivono e lavorano nel nostro paese in un clima di reciproca fiducia.
A nostro avviso va fatto lo sforzo di segnalare la possibilità di strategie diverse – che in parte sono già patrimonio, esperienze, sperimentazioni in atto dei soggetti sociali impegnati sul fronte della marginalità – elaborando alcuni criteri e forme di intervento realizzabili. Se prendiamo il caso della tratta di esseri umani non possiamo non segnalare l’iniziale incapacità istituzionale a farsi minimamente carico del problema: per anni non “la tolleranza zero”, ma la vera e propria omissione – anche nel caso dello sfruttamento sessuale di ragazze minorenni – è stata la normale attività di contrasto delle forze dell’ordine a livello nazionale. A fronte di un impegno significativo e crescente delle esperienze del volontariato e della cooperazione sociale.
Quindi il coinvolgimento delle comunità locali nell’individuazione e nella condivisione di strumenti idonei a superare quelle criticità che connotano alcuni ambiti territoriali è auspicabile, nella misura in cui assurga a contesto di promozione di quei percorsi di inclusione sociale nei quali Caritas Italiana e le Caritas diocesane credono profondamente e per i quali prestano sin d’ora la loro collaborazione.
Fonte: sito della Caritas