E che è stato, un pizzicotto?… Chiede esterrefatto il deputato di Alleanza nazionale Marcello De Angelis alla terza carica dello Stato che gli mostra le nocche della mano destra vistosamente ferite. “Macchè, è stata una medusa. Domenica ce ne erano in giro di grosse così”, sorride tutto orgoglioso delle sue avventure subacquee il presidente della Camera Gianfranco Fini. Martedì 5 agosto, ultimo giorno di scuola per i deputati prima delle vacanze, mentre la Camera è impegnata nel voto di fiducia di fine stagione, l’ex leader di An si aggira in Transatlantico come un parlamentare qualsiasi, senza nessuno intorno. È stata la prima riforma della sua presidenza: via il codazzo dei commessi in alta uniforme che facevano ala al presidente ovunque, alla buvette come nel cortile. Misura necessaria per Fini per fumarsi una sigaretta in santa pace e fermarsi a chiacchierare. Ma che sottolinea la solitudine del capo, da sempre circondato da gente non all’altezza.
L’ultima dimostrazione, la rissa di lunedì 4 in via dei Serpenti, nel quartiere romano di Monti: era la prima notte dei militari nelle strade, a turbare la quiete non è stato un rom, ma un deputato di An, anzi uno degli uomini più vicini a Fini, il massiccio Marco Martinelli, compagno di immersioni. Venuto alle mani con un carabiniere per una banale lite su un motore acceso che stava disturbando una cena. “Sono un deputato e faccio quello che c… mi pare”, gridava l’onorevole in mezzo alla strada trattenuto dai clienti del ristorante. Chissà come l’avrà presa il presidente.
Altro che meduse. Nonostante l’apparente bonaccia seguita alla vittoria del centrodestra il 13 aprile, le acque della politica continuano a essere infestate di squali. Oggi Fini avrebbe tutti i motivi per essere un uomo felice: dal punto di vista pubblico, con l’elezione a presidente della Camera, è entrato nel ristretto circolo di notabili della seconda Repubblica, non più esposto agli alti e bassi delle sconfitte e dei rovesci elettorali. Dal punto di vista privato, si sta finalmente decidendo a vivere in pienezza la relazione con Elisabetta Tulliani e la paternità della piccola Carolina. È alle porte il trasloco con la nuova famiglia nel quartiere Parioli, lui che pariolino non è stato neppure quando guidava i giovani del Movimento sociale. E sono già cominciate le vacanze al mare ad Ansedonia, il ritiro della sinistra accademica dove vive il suo più recente amico, Giuliano Amato, nella spiaggia della Tagliata. Già mobilitati forze dell’ordine e vigili del fuoco per tutelare la sicurezza di Fini, con relativo comunicato di protesta del sindacato pompieri, stremati dai turni straordinari dei sommozzatori. Sulla privacy della coppia Fini-Tulliani, invece, c’è poco da fare: nella rassegna stampa della Camera hanno fatto il loro trionfale ingresso testate come ‘Novella 2000’ e ‘Di Più’. Con titoli del tipo ‘Scatta la presa doppia stile pianista’ e foto eloquenti del petting presidenziale.
Eppure il presidente della Camera non ha ancora risolto il problema della vita: cosa fare da grande, quale identità darsi. Il vecchio Fini capo-partito, l’erede del Movimento sociale di Giorgio Almirante, è decisamente un ricordo del passato. Anche se, a volte, la memoria riemerge. I conti con il ventennio e con le leggi razziali sono chiusi una volta per tutte, il vero buco si chiama terrorismo nero e anni Settanta. Come si è visto con il messaggio spedito da Fini per l’anniversario della strage di Bologna, in cui ha fatto allusione alle “zone d’ombra” della sentenza che ha condannato all’ergastolo Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, militanti del Msi negli anni Settanta. Da segretario di An un anno fa era stato più esplicito: “C’è una verità giudiziaria, ma il dubbio è fondato”. Scampoli della vecchia radice, per accontentare un partito che rischia di sparire nel partitone conservatore di Berlusconi.
Il nuovo Fini istituzionale è ecumenico. Stile impersonale, da uomo in grigio. Rare interviste, un viaggio all’estero in programma a Tokyo per settembre, understatement studiato dopo le pirotecniche presidenze di Casini e Bertinotti. E qualche strappo. Riceve gli atleti gay reduci dagli Eurogames, i giochi europei omosex, e spiega che lo sport deve servire a superare le discriminazioni anche nella società. Fraternizza con i deputati dell’opposizione: con Emanuele Fiano, esponente della comunità ebraica milanese, figlio di un deportato ad Auschwitz, che lo ha contestato in aula nei primi giorni di legislatura, è nata un’amicizia. Con Rosy Bindi, vice-presidente della Camera, la più lontana da lui per carattere e cultura, durante le riunioni è tutto un traffico di bigliettini.Anche nei nuovi panni, al solito, è alla ricerca di un ruolo e di una figura paterna cui appoggiarsi: dopo Giorgio Almirante, Giorgio Napolitano. Alla Camera lo chiamano ‘l’uomo del Colle’: nell’ultimo mese non c’è stata indicazione del Quirinale che il primo inquilino di Montecitorio non si sia preoccupato di rilanciare. Non è la prima volta che succede: con la presidenza di Francesco Cossiga il segretario del Msi Fini era una specie di portavoce ombra. Ma allora c’era da fare da cassa di risonanza al Picconatore della prima Repubblica. Mentre oggi il ruolo è esattamente l’opposto: moderare la maggioranza berlusconiana, temperarne gli eccessi. C’è da bloccare la norma stoppa-processi, che preoccupa Napolitano? E Fini convoca a pranzo Silvio Berlusconi e gli dice che è meglio ripensarci. Il capo dello Stato è turbato per il gestaccio di Umberto Bossi contro l’inno nazionale? E il presidente della Camera rimbrotta il capo leghista in aula. Al Quirinale non gradiscono lo stato di emergenza proclamato da Roberto Maroni sugli sbarchi degli immigrati? E l’uomo di Montecitorio, prontamente, convoca il ministro dell’Interno a riferire.
Un feeling suggellato dal pranzo della settimana scorsa con Massimo D’Alema. Benedetto pubblicamente, in modo non rituale, da Napolitano. Quasi un patto a tre, tra il presidente della Camera che viene dal ghetto missino, Giorgio il vecchio che è stato dirigente del Pci togliattiano e Massimo il giovane (che aspirava anche lui al Colle), per riprendere il cammino delle riforme. Con la parola d’ordine, al solito, del dialogo in Parlamento, che può riportare sulla scena i grandi esclusi nei mesi del rapporto diretto tra Berlusconi e Walter Veltroni: Fini e D’Alema, appunto.
Un attivismo che crea insofferenza tra gli uomini del Cavaliere. Anche perché alle parole sono già seguiti i fatti. Quando il cda Rai ha votato sulla defenestrazione di Agostino Saccà dalla fiction, il consigliere di An Gennaro Malgieri si è alzato e se ne è andato: non è noto come un cuor di leone, difficile che non ci sia stata la manina del presidente della Camera. Anche un altro Fini-dipendente, il vice-capogruppo del Pdl alla Camera Italo Bocchino, ha trovato non si sa dove il coraggio di contraddire Berlusconi sulla produttività dei deputati. Quando il gioco si fa duro, poi, entra in campo Fini in persona. Un attrito c’è stato con Renato Schifani dopo le dichiarazioni in cui il presidente del Senato invocava la riforma del Csm. Fini non ha apprezzato e lo ha fatto sapere. La rivalità tra i due non ha ancora superato i livelli di guardia, come successe con Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera, ma il gioco dello scavalco è partito. Se Fini vede D’Alema, Schifani riceve Veltroni. E ‘Il Tempo’, quotidiano romano sensibile all’elettorato di An, dedica una pagina alla presidenza Fini: “La Camera lavora di più, 239 ore di attività”. In un box, l’impietoso paragone con la gestione Schifani: “Senatori in aula, solo 110 ore in tre mesi”.
Con il governo Berlusconi lo scontro più duro c’è stato due settimane fa durante una riunione con il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito. Vito, conoscitore dei regolamenti parlamentari in tutte le loro sottigliezze, stava elencando in modo pedante i motivi per cui il governo chiedeva la fiducia citando commi e articoli, quando Fini lo ha interrotto gelidamente: “Ministro, qui presiedo io. Lei parla solo quando io le dò il permesso”. Da allora in poi i rapporti tra i due sono inesistenti. E il Cavaliere non ha gradito.
Fini prova a ritagliarsi un ruolo, sognando di fare il regista della legislatura delle riforme. Ma con il timore, invece, di doversi occupare nei prossimi anni soltanto di tagli alla carta o della lotta ai pianisti che votano al posto dei deputati assenti (dal gennaio si voterà con il sistema delle impronte digitali: costo 400 mila euro). “La verità”, spiega un deputato del Pd, “è che Fini presiede il Parlamento che conta di meno nella storia”. Tra commissioni esautorate, deputati poco autorevoli e un governo che marcia come un treno tagliando i tempi di discussione, nell’aula di Montecitorio resta ben poco da fare per mettersi in mostra. Così il primo inquilino di Montecitorio prova a sfuggire alla precoce notabilizzazione, sia pure dorata. E un futuro alle prese con le meduse di Palazzo, quelle che fanno più male.
[Marco Damilano – fonte: L’Espresso]