Walter Veltroni ha fatto uno di quei gesti che possono essere definiti onorevoli ed efficaci. L’onorabilità delle dimissioni in un Paese in cui raramente vi si fa ricorso si dimostra da sola. Quanto all’efficacia, c’è poco da discuterne.
Le dimissioni date come sono state date, improvvise e irreversibili, hanno esposto in tutta la loro crudezza le condizioni in cui versa il Partito democratico. Rimosso l’esile velo di una timida leadership, ci si è accorti che sotto non c’è altro che un’area politica allo sbando. L’improvvisazione, l’impreparazione, la confusione che hanno dominato la giornata di ieri sono state i migliori testimoni di una mancanza di strategia, individuale e collettiva, ai vertici del Pd, sia da parte degli uomini finora al comando, sia di quanti erano in posizione critica.
Questo pesante giudizio si basa, intanto, sulla modalità della scelta di Veltroni. È stato raccontato che nemmeno i più stretti collaboratori del segretario fossero stati informati: è solo un dettaglio, ma fra i più inquietanti. Esiste forse migliore prova di quanto poco ci si parli o ci si consulti al vertice di questo partito? Che dire poi della sorpresa che ha colto tutta l’élite del Pd di fronte a queste dimissioni? A dispetto della tanto lodata esperienza di una classe politica che si vanta della propria finezza, non uno dei leader aveva previsto questa mossa. Il che vuol dire, banalmente, che nessuno di tutti quelli che hanno criticato Veltroni aveva davvero fatto un calcolo delle possibilità, delle mosse, e nemmeno aveva riflettuto a fondo sulle caratteristiche del segretario.
Ma se la costernazione che ha colto il gruppo dirigente ha suonato l’allarme sulla sua profonda debolezza, è l’ipocrisia che ne è seguita a indicare un pessimo futuro. Che dire di quel «no» collettivo risuonato all’annuncio di abbandono del segretario? L’hanno pronunciato leader come Letta che non ha mai nascosto la sua distanza da Veltroni, come Bersani che è già sceso in campo contro il segretario e come Rutelli che non nasconde il suo disagio a stare in compagnia di molti di loro. Non c’era D’Alema, ma pensiamo che avrebbe anche lui opposto il suo rifiuto, e cercato di non far precipitare la situazione.
Più che desiderio di ricucire, quel «no» è apparso come un desiderio di guadagnare tempo. La discussione infatti si è rapidamente orientata non sul merito, ma sul calendario. Quel calendario che è la gabbia mentale e fisica di questa politica oggi: elezioni a giugno, cda Rai da nominare forse già domani, tesseramento in ritardo, testamento biologico da approvare. Pareva di veder passare negli occhi di molti dei presenti lo scorrere di questa agenda. Il Pd da mesi non fa altro che navigare così, da un appuntamento istituzionale all’altro, vedendo in ognuno l’occasione di piccole sconfitte e vittorie: un processo che ormai da anni, fra scadenze parlamentari e urne, ha sostituito per questo partito il percorso appassionato e visionario della strategia politica.
Non ci siamo dunque meravigliati quando, invece di svenire, urlare o fare un drammatico gesto qualunque, il coordinamento del Partito democratico ha imboccato la strada di un altro calendario: ha cominciato a discutere di segretari provvisori, transizione, reggenza collettiva, e date, sempre date, su quando e come convocare il congresso per altre primarie e un altro segretario. Naturalmente calcolando già – senza mai dirselo – quale e quanto vantaggio andasse a chi, in questa nuova situazione, nella formazione delle prossime liste per le Europee. Si spiega così la via che infine è stata imboccata per il prossimo futuro: quella burocratico-formale di un’altra mezza transizione nella transizione, di un segretario part-time, di un coordinamento che tenga insieme i cocci. In maniera da poter non ammettere che il vaso è rotto.
La sinistra ha molte responsabilità nella propria continua sconfitta di questi ultimi anni. Ma nessuna è forse così rilevante quanto la rimozione con cui continua a negarsi la verità su se stessa.
[fonte – La Stampa: Lucia Annunziata]