Leader nel mondo nel design ma diciassettesimi in Europa per investimenti nella ricerca e nello sviluppo. Al primo posto nel mondo per il patrimonio artistico e culturale ma i nostri musei e gallerie scivolano nella classifica di quelli più visitati. C’era una volta il made in Italy, dell’abito e del museo, delle canzonette e delle mostre, motore e volano dell’Italia che inventa e s’arrangia, crea e produce. “C’era una volta”, perché adesso “il fatto in Italia” c’è ancora ma arranca, non è Sistema e produce culturalmente ed economicamente molto meno di quello che potrebbe.
Fotografia di uno spreco. L’ennesimo, nell’Italia delle caste e delle derive. Spreco di occasioni e di talenti. E di punti percentuali di prodotto interno lordo. Ecco che allora l’Italia è leader al mondo nella produzione del design – grazie alla materia prima che si chiama gusto – e seconda dopo la Cina per esportazione di “prodotti creativi”, categoria vasta che comprende dall’artigianato agli audiovisivi, dalle pubblicazioni cartacee ai nuovi media. Eppure gli investimenti su creatività e produzione culturale e sostegno ai giovani talenti sono i più scarsi in Europa. Progresso e declino, insieme. Voglia di cultura e incapacità non di produrla ma di offrirla. È il quadro contraddittorio che viene fuori dal V Rapporto annuale di Federculture, una sorta di Confindustria che mette insieme tutti i soggetti pubblici e privati che organizzano e gestiscono cultura, turismo, sport e tempo libero. “Creativi per caso” sintetizza Federculture nel rapporto di 230 pagine presentato al ministro per i Beni culturali Sandro Bondi, uno studio che fa lo sforzo inedito di mettere insieme e analizzare tutte le voci che hanno a che fare con turismo, cultura e tempo libero. Ma essere creativi oggi non basta più se il talento non è parte di un sistema coordinato e non casuale di creatività.
Una nuova politica per la cultura. Il messaggio politico del rapporto è chiaro: «L’Italia sconta una visione della cultura ancora identificata quasi esclusivamente con la conservazione del patrimonio artistico, o piuttosto legata al tempo libero, quasi sempre considerata una spesa più che un investimento». Soprattutto una visione che «non comprende la reale portata della creatività come forza trainante dell’economia grazie ai suoi effetti di contaminazione nel tessuto produttivo in termini di innovazione, valore aggiunto e competitività». La scommessa per l’Italia oggi non è tanto, o solo, gestire un museo bensì immaginarne la gestione nell’insieme del territorio dove si trova quel museo. Il museo da solo non basta più. Il rapporto cita la classifica del Giornale dell’arte (maggio 2008): nel 2007 il più visitato è stato il Louvre seguito dal Centre Pompidou, dal British e dalla Tate Modern gallery. Il primo museo italiano è al settimo posto (Musei Vaticani) seguito dagli Uffizi (21esima posizione). Nelle classifica delle mostre più visitate nel 2007 (ai primi tre posti c’è Tokio) per trovarne una italiana bisogna arrivare alla 86esima posizione (Brescia, “Turner e gli impressionisti”), al 104esimo posto ci sono le Scuderie del Quirinale (“Cina, la nascita dell’Impero”), il Vittoriano (“Chagall”) e i Musei capitolini. Eppure l’Italia è al primo posto al mondo per il patrimonio artistico e culturale e al secondo per quello storico. C’è qualcosa che non torna tra capitale a disposizione e capacità di investimento.
La lezione che viene dall’Europa. Tanto per fare un esempio di cosa voglia dire arte come investimento e come forza trainante dell’economia, l’Inghilterra stanzia oltre 10 milioni di sterline per il piano strategico Creative brain, New talents for the new economy che punta sulla formazione dando vita a 5000 nuove occasioni di apprendistato per i giovani creativi e alla costituzione di decine di hub accademici per le industrie creative per collegare scuole, college e università su tutto il territorio britannico. Progetti analoghi che mettono insieme creatività, cultura ed economia sono in Olanda, in Germania, nei paesi scandinavi e poi in Spagna, Lettonia, Austria e Svizzera. L’Italia, si legge nel Rapporto, «fatica ad adeguare le strategie di rilancio alle strategie imposte dalla competizione della società globale nell’economia della conoscenza».
Eppure, c’è tanta voglia di cultura. Crisi, inflazione, prezzi alle stelle… eppure le famiglie italiane nel 2007 hanno speso alla voce cultura 61,5 miliardi di euro (+2,3% rispetto al 2006), il 6,83 per cento del bilancio famigliare, molto al di sotto della media dell’Europa allargata ai 27 (9,4%) o del Regno Unito ( 12,5%). Va meglio il teatro (+7,6 per cento nell’ultimo anno; +23% negli ultimi dieci anni) e i concerti (+17,3%). Più in generale godono di ottima salute gli spettacoli dal vivo per cui aumentano il pubblico (+10,1%) e le spese (+11,2%). I prezzi di concerti, musei e teatri crescono ma “solo” del 3,3%, le metà rispetto alle manifestazioni sportive (+6,5%), un soffio rispetto a pane, pasta, carburanti, energia cresciuti tra l’11 e il venti per cento. Anche nella spesa culturale ci sono due Italie, il nord che chiede e consuma, il sud passivo e distratto. Eppure Sicilia e Campania sono le regioni che nel 2007 hanno speso di più nel settore culturale, 432 e 161 milioni di euro contro i 113 del Trentino Alto Adige, i 90 del Piemonte e gli 85 della Lombardia. Ancora una contraddizione: le regioni che più spendono in cultura sono quelle dove c’è meno consumo. Più che legittima qualche domanda.
Signori, non c’è più un centesimo. La scure di Tremonti andrà giù senza pietà davanti al bilancio del ministero dei Beni culturali. Da sempre fanalino di coda delle varie amministrazioni dello stato (nel 2007 i finanziamenti erano cresciuti dello 0,10 per cento arrivando a 1,98 miliardi mentre per gli altri ministeri la crescita era stata del 6,9%), la manovra triennale di Tremonti toglierà ai Beni culturali 900 milioni di euro in tre anni. Altri 150 se ne sono andati da voci legate allo spettacolo e alla tutela del paesaggio per finanziare il taglio dell’Ici. Gli enti locali dedicano alla cultura tra lo 0,9 delle Regioni al 3,3 dei Comuni. Tutto questo per dire che i soldi dal pubblico non arrivano più e vanno trovati in altro modo. Ma il privato investe in cultura se è strategico, se dà un ritorno almeno in immagine. Se nel resto del mondo i privati fanno a gara per donare, sponsorizzare e finanziare anche una pachina in un parco – agevolati dal sistema fiscale – in Italia la cultura resta il settore dove i privati investono meno: il 15 per cento contro il 63% dello sport e il 22 per cento della solidarietà. Via via che si chiude il rubinetto pubblico, si apre però quello privato. E negli ultimi due anni, grazie soprattutto ad alcuni strumenti fiscali (oltre alle sponsorizzazioni, dal 2003 sono possibili le erogazioni liberali deducibili dall’imponibile), la media dei finanziamenti privati è cresciuta del 5%. La lista dei benefattori è guidata delle banche (3 miliardi di euro in sei anni). Crescono le erogazioni liberali delle imprese (33 milioni di euro) e quasi raddoppiano quelle delle persone fisiche, cittadini che decidono di investire in cultura (20 milioni di euro, +70 per cento rispetto al 2006).
Competitività? La Caporetto italiana. Quella che segue è una lista nera da cui partire per cominciare a ragionare su cosa significhi essere competittivi. L’Italia è al 15° posto in Europa per produttività di ogni ora lavorata; al 17° per quota di pil destinata a investimenti in ricerca e sviluppo e al 24° per quella destinata alla formazione delle risorse umane. La nostra migliore università pubblica è al 173° posto nella classifica degli atenei. Secondo il World economic forum l’Italia è al 46° posto nella classifica della competitività, seimila cervelli ogni anno lasciano il paese e vanno all’estero e i professori sotto i 40 anni sono il 17 per cento del totale. Un sistema vecchio, in netta perdita. E anche il nostro “fascino”, la capacità di attrattiva del paese nel suo insieme, scivola al quinto posto nel mondo dopo Australia, Stati Uniti, Regno Unito e Francia. C’era una volta… l’Italia.
[fonte: Repubblica.it]