Ha avuta una certa risonanza sulla pagina della cultura di alcuni giornali a distribuzione nazionale la pagina numero 153 dell’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga. In questa pagina un personaggio fittizio, il capitano Simonini, riporta per filo e per segno la conversazione con un frate avvenuta in un altro libro. Un libro scritto da uno scrittore in carne ed ossa: si tratta del diario di Giuseppe Cesare Abba Da Quarto al Volturno, forse l’unico racconto degno di nota della spedizione dei Mille di Garibaldi, che fu pubblicato grazie all’interessamento di Carducci e che è stato ristampato quest’anno da Sellerio per i 150 anni dell’Italia. Un libro che magari non ha fatto furore, ma che nemmeno si può considerare una perla rara data la sua longevità nelle antologie scolastiche come testimonianza storica. Ed infatti una solerte professoressa d’italiano di Pagano se n’é accorta e ha segnalato il fattaccio a La Stampa:
“Sto leggendo Il cimitero di Praga di Umberto Eco. So che in alcune interviste, l’autore ha affermato di aver attinto a varie fonti e documenti, di avere operato dei «copia e incolla», ma quello che ho letto a pagina 153 mi ha lasciata piuttosto perplessa: in pratica, l’episodio riportato lo si ritrova pari pari e, a tratti, parola per parola nel diario di Giuseppe Cesare Abba Da Quarto al Volturno. Mi è stato facile riconoscerlo perché in passato l’ ho proposto spesso ai miei alunni e mi chiedo come sia possibile che nessuno se ne sia accorto. È pur vero che sono un’ insegnante di letteratura del buon tempo antico, allieva di uno dei più grandi dantisti italiani, ma… Ma, forse, il professor Eco troverà un’ ironica spiegazione per tutto questo.”
Quanta amarezza. Però, anche senza aspettare un’ironica spiegazione da parte di Eco, potremmo comunque argomentare qualcosa. Perché siamo a conoscenza che la letteratura e le arti hanno avuto un loro percorso durante il Novecento, e ci hanno anche avvisato da qualche parte che esiste un termine molto variegato che si stringe intorno ad un fenomeno altrettanto variegato che s’intitola “postmoderno”. Accontentandosi, basta anche dare un’occhiata a Wikipedia. Non c’é bisogno né di essere letterati scafati né fini linguisti per renderci conto che parecchia strada divide il plagio dalla citazione. Per farla veramente breve, sarebbe come se qualcuno vendendo una serigrafia di Warhol gridasse “Al plagio!” perché ha visto quegli stessi barattoli di zuppa il pomeriggio precedente al supermercato.
Non ci scandalizza poi molto il fatto che Eco abbia messo in bocca ad un suo personaggio le parole di un altro scrittore in un libro, tra l’altro, che si prefissa come tema la trattazione della falsificazione. Si potrebbe magari discutere sul fatto che oramai certe operazioni artistiche comincino a perdere di mordente o a sembrare esaurite. Non è il nostro caso, dato che qualcuno di fronte all’immagine del professore copione non ha resistito alla tentazione e ha cominciato ad eccitarsi. Purtroppo è stata la gente sbagliata. E così la pagina culturale dello scorso 23 dicembre de Il Giornale titolava “Dopo Galimberti e Augias anche Eco entra nel club di «Ripubblica»”. Ma la cosa più deprimente da rilevare è il ragionamento della firma dell’articolo, Matteo Sacchi:
“Per la professoressa non è stato difficile accorgersene, fa sempre leggere il brano ai suoi studenti in accoppiata con la novella “Libertà” di Verga (viva le docenti all’antica), anzi si è stupita che nessun altro abbia tirato le orecchie all’Umbertone nazionale o almeno abbia detto «ehi professor Eco, che scherzo geniale, che arguta contaminazione…». Del resto per il re del pastiche culturale, che ha fabbricato tutto il romanzo proprio sull’idea della falsificazione, non si tratterebbe di nulla di veramente grave. Peccato che sabato scorso, proprio mentre dava dimostrazione della sua vena nazional popolare, cercava di vendere più copie possibili del suo romanzo al Carrefour di Carugate. Eco, provocato da una domanda maliziosa sulla scoperta di Pina Pagano, ha risposto con la faccia più stupefatta e candida: «E certo! Il personaggio si chiama Giuseppe Cesare Abba e dice quello che ha scritto!».”
“Contaminazione”, “pastiche culturale”, “idea della falsificazione”. Secchi dà l’idea di sapere di cosa parla. Ma, in nome dei cari docenti all’antica (all’antica?) e contro i sofisticati intellettuali corrotti di oggigiorno, ecco che questa penna frizzante si traveste da vendicatore del popolo lanciandosi in parafrasi maliziose:
“Meglio avrebbe fatto a dire: «Il libro è mio e me lo gestisco io», oppure: «Visto che bravo? Ho letto tonnellate di libri ottocenteschi e li ho riassemblati, chi trova tutti i prestiti vince un premio» (sin lì la gita al Carrefour era stata geniale: «Oggi sono a firmare copie del mio libro all’ipermercato e lunedì, probabilmente, andrò alla biblioteca civica a firmare sacchetti di patatine»). Invece con la sua frase un po’ saccente ha spinto la precisissima professoressa Pagano (se mi legge, Pina: la prego abbia pietà di eventuali refusi) a un’altra replica dalle pagine della Stampa. «A pag. 153 non è certo Abba a parlare ma il protagonista del romanzo, cioè Simonini. Conosco la legge dell’ubi maior e detesto polemizzare ma la mia replica… più che alle parole è affidata a quanto ciascun lettore può intendere». Bene.”
Si, bene. Anzi benissimo. La sua opinione è che sia molto più probabile che Eco, non proprio un esordiente, abbia commesso l’errore di copiare un autore da un’antologia di letteratura italiana (un’antologia di letteratura italiana!), piuttosto di avere voluto in realtà riferirsi al fittizio Simonini al posto di Abba, tra l’altro nel momento di presentare l’opera davanti ad un pubblico che stringeva in mano il suo libro e dunque capacissimo di smentirlo in qualsiasi momento. Ma se si può fare spallucce e bollare il caso come malinteso, non si può passare sopra la disonestà dell’articolo. Una frase su tutte, più avanti nel testo, ci chiarisce gli intenti penosamente politici di tali articoli di cultura. Sacchi scrive:
“E mentre c’è anche chi si interessa delle fonti utilizzate da Eco per dipingere la figura di Ippolito Nievo, ciò che ci viene da dire è che forse a ulteriore giustificazione del professore si può invocare una di quelle belle parole così care ai sessantottini: «il contesto».”
Il “contesto” una “di quelle belle parole” da sessantottino? Il “contesto” una parola da comunisti nostalgici? Tanto più che questo Sacchi definisce addirittura “geniale” il fatto che Eco sia andato a pubblicizzare il suo libro firmandone le copie nel reparto alimentari di un Carrefour di Carugate, dimostrando non solo di conoscere ma soprattutto di apprezzare il significato di un cambio di contesto. Lo stesso cambio di contesto che modifica il significato delle parole di Abba messe in bocca al capitano Simonini ne Il cimitero di Praga.
In sostanza, il critico de Il Giornale conosce già la risposta alle sue perplessità: è la sua premessa. Ha capito in partenza la trasposizione di Eco, conosce l’esistenza del “pastiche culturale” e della “contaminazione”: sa bene che si tratta di una citazione nascosta il cui riconoscimento non fa che arricchire di significato il testo. Ma non riesce proprio ad essere onesto. Preferisce agitare le braccia come un buffone e calunniare un supposto avversario politico, di fatto rendendo ridicolo sé stesso e togliendo credito al suo giornale.
Pura disonestà che ha montato un coro di belati. Mentre l’unico difensore di Eco è stato Sergio Romano sul Corriere della Sera altri non hanno ritenuto importante questa bagatella, ma parecchi su internet hanno invece riportato gongolanti la gran notizia di un Umberto Eco che copia. Un esempio su tutti è stato l’intervento di un quotidiano on-line, l’Occidentale, che in un articolo del 14 gennaio scorso ha intitolato programmaticamente “Considerazione sul “copia e incolla” di Umberto Eco” la “vicenda di quell’insegnante del buon tempo antico”, oltrepassando cupamente il ridicolo:
“In tema di università e scuola Umberto Eco non si è mai risparmiato. Nella sua generazione, si è sempre distinto per non essersi mai negato alle più spregiudicate complicità (o, se si preferisce, alle più eleganti civetterie) con quel che gli pareva il ’68 e il sessantottismo significassero. Ora capita che in molti punti del suo ultimo libro emergano l’uso (e magari l’abuso) di un “copia e incolla” fin troppo diffuso. Qualcosa comincia ad emergere.”
Ancora con il sessantotto, ancora discorsi allusivi campati in aria. Fantastico poi questo “qualcosa comincia ad emergere”: brividi! La losca ombra del demoniaco Eco allungarsi sulle nostre deboli menti manipolabili. Ecco come il pezzo de l’Occidentale finisce:
“Se non fosse per quel che resta del nozionismo, ai critici della Gelmini sarebbe stato negato perfino la facoltà di citare quell’abilitazione alla professione conquistata a Catanzaro. Alla Gelmini, non ancora ministro di Berlusconi, non si perdona di essersi recata da Bergamo a Catanzaro. Con Eco, ed è giusto sia così, c’è molta più indulgenza di itinerari (Praga, Quarto, Volturno, ed altro ancora). Viva il nozionismo.”
Cosa c’entra la Gelmini? Nozionismo? Di cosa stiamo parlando? Politica spiccia. Tutto, tutto diventa un pretesto per poter difendere la propria parte politica insinuando che tutti sono uguali a tutti. Scrivono sotto la pagina Cultura cercando di prenderci in giro, facendoci credere che sia solo quella supposta delle “docenti all’antica” e “del buon tempo antico”. E fanno la figura dei polli con interventi troppo idioti e boriosi e disonesti per essere veri.
In tema di plagio vero o presunto, è accaduta quasi contemporaneamente in Francia una vicenda a tratti simile, con Eco curiosamente ancora una volta al centro dello scandalo. Sul quotidiano francese Libération del 18 gennaio usciva una notizia ripresa anche da alcuni telegiornali serali: “M’dame, la présidente a copié!”. Per chi non fosse convinto di quanto detto sopra, ecco un esempio da manuale di plagio autentico. Pare non ci siano dubbi: Louise Peltzer, apprezzata linguista e presidentessa dell’Università della Polinesia francese, ha copiato nel suo ultimo libro Des langues et des hommes molti passi del saggio di Eco La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea del 1994. “Un fatto senza precedenti nella storia dell’università francese”, dice Libération che poi cita una lettera firmata da professori e personalità della cultura francese che chiedono spiegazioni alla Peltzer. La quale ha preferito dichiarare laconicamente “Je préfère ne rien dire”. Ecco uno dei brani accusati. Cercate l’errore:
Peltzer: “Il a la convinction que cette concorde universelle devra se réaliser sous l’égide du roi de France, qui peut légitiment aspirer au titre de roi du monde parce qu’il descend en ligne directe de Noé.”
Eco: “Elle s’accompagne de la conviction que la concorde universelle devra se réaliser sous l’égide du roi de France, qui peut légitiment aspirer au titre du roi du monde parce qu’il descend en ligne directe de Noé.”
Una pura e semplice riproduzione. Un plagio in questo caso autentico perché Eco, sebbene menzionato nella biografia della Peltzer non compare mai citato in una nota o in un riferimento nel testo. Non trattandosi di letteratura non ha niente a che vedere con la nozione di “contesto” o di “contaminazione” o di “pastiche culturale”. Si tratta invece di un saggio, una trattazione scientifica, in cui il caso di presa in prestito non riconosciuto di parole altrui si chiama rubare. Cambiano i contesti, cambia il significato. E lo possiamo finalmente dire: è un plagio.
Ah, questi contesti!
- Medeaonline non risponderà di plagio o copia per qualsiasi citazione operata dall’autore dell’articolo. In corsivo, grassetto o tra virgolette che sia…
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Chi vuole divertrsi a scoprire da dove Eco ha tratto ispirazione per il “Nome della rosa”, comprese le frasi in latino che intercalano il testo, legga “Un cantico per Leibowitz”, di Walter M. Miller, libro di fantascienza pubblicato nel 1959. L’anno della peubblicazione l’ho trovato su Wikipwedia.