Il lutto dei famigliari e dei colleghi degli alpini uccisi in Afghanistan è degno del massimo rispetto da parte di tutti, autorità e semplici cittadini. Partire dalla morte dei soldati italiani per parlare di Afghanistan è una tentazione pericolosa, che espone, nel migliore dei casi, a qualche odioso malinteso ideologizzato. Eppure è l’occasione giusta per trattare un tema per il quale, in condizioni ordinarie, si percepisce crescente disinteresse. L’attenzione dell’opinione pubblica è richiamata sull’Afghanistan, quella terra di mezzo ai più sconosciuta fino a dieci anni fa, quando giunse notizia che qualcuno dei “nostri ragazzi” vi aveva tragicamente perso la vita.
Laggiù, nelle steppe insanguinate da un conflitto quasi decennale, la gente muore ogni giorno. Si tratta di soldati, non solo italiani, ma anche americani, britannici, afghani. Ma il più delle volte, le vittime hanno il volto di un bambino che andava a scuola, di una donna uscita a far compere. Sono i cosiddetti “danni collaterali”, epiteto mostruoso con cui si indicano le perdite civili. Certamente indesiderate, ma per cui non sembra valer la pena scandalizzarsi o chiedere a gran voce il ritiro delle truppe straniere. Che si abbia perso di vista che cosa sta accadendo davvero in Afghanistan? Che si sia dimenticato che, anche se non vogliamo riconoscerlo, vi si combatte un vero conflitto armato? Con quale coraggio noi, persone normali, non membri del Comitato di Stato Maggiore delle truppe Nato, parliamo di operazione di pace e non di guerra?
Gli stati democratici occidentali rifuggono tale definizione: è la paura della piazza a guidarli. La consapevolezza che, ad oggi, nessun elettorato politicamente maturo accetterebbe le spese militari con facilità. Il costo della guerra è un boccone difficile da far digerire alla popolazione, ma ciò non significa che gli stati abbiano cessato di considerarla come strumento di interesse nazionale, come è da sempre. E’ solo più onerosa in termini di consenso. La nostra società si è evoluta e raffinata. Ma possiamo dire lo stesso del mezzo bellico? Abbiamo cercato di regolare quello che fino a qualche decennio fa era un vero e proprio diritto degli stati a fare la guerra: siamo certi che l’insorgenza afghana abbia accettato di adeguarsi ai nostri parametri?
Forse è necessario che i governi dei paesi coinvolti nel disastro Afghanistan comunichino ai propri elettori che ciò che è accettato e accettabile negli Stati Uniti e in Europa, dove la guerra, se non è proprio sconosciuta è un ricordo quasi lontano, non è quasi mai riconosciuto altrove. La guerra significa bombe, sangue, morte. Pensare di edulcorare la realtà approfittando del dolore e della comprensibile indignazione popolare non servirà a sbrogliare la matassa del ritiro e degli esiti concreti di un conflitto sempre più fuori controllo: le opinioni pubbliche saranno contente di poter pensare che “l’operazione di pace è finita, i nostri ragazzi possono tornare a casa”. Altrove, coloro che sono riusciti a non diventare “danni collaterali” continueranno a vivere sulla propria pelle le conseguenze della guerra vera e propria. . Anche se noi non abbiamo il coraggio di chiamarla con il suo nome.