Insomma a tutto un campo semantico che riconduce all’idea della stupefazione, della paralisi conoscitiva, di un’estasi statica, stordita, che non esce dal corpo, e resta anzi incatenata all’autocontemplazione, alienata e rapita, del corpo stesso, anzi della sua replicazione, del suo doppio e del suo simulacro visibili e conoscibili.
Così Menone, in Platone (80b), si sente stupefatto, stordito, rapito anima e corpo (tèn psychèn kài tò sòma narkô) dalla rivelazione socratica dell’essenza della virtù; Gregorio Nazianzeno definisce il noys aneklàletos, il pensiero inesprimibile, senza parola, come il kìnema narkònton, come «moto delle creature stupefatte» (Thesaurus Graecae Linguae, col. 1362).
Ma il narciso ‒ fiore dalle vesti candide, dal cuore purpureo, dalla semenza nera, che affonda le radici nelle profondità della terra e fiorisce sul confine incerto fra l’inverno e la primavera ‒ sembra incarnare una sorta di contaminante ed ibrida continuità/contiguità fra il mondo supero e quello infero, fra la conoscenza del giorno e quella della notte ‒ e così fra Eros e Thanatos, fra il piacere solitario e potenzialmente malato dell’essere se stessi, del sentire e godere se stessi, e quello cieco e sfrenato dell’autodistruzione.
In Sofocle (Edipo a Colono, 684 sgg.), il Narciso è la corona delle Erinni, l’archèion megàlon theòn stephànoma, la «corona delle grandi antiche dee»: perché nàrke, nàrkosis, paralisi, stupefazione, annichilimento, è anche la Ate, l’accecamento, l’annullamento della colpa/pena tragica, la fatalità di un Eros egualmente feroce e indomabile sia quando è rivolto verso se stessi (o verso il riflesso, il proprio Sé come altro-da-sé), sia quando è provocato dall’Altro.
Ma, nelle Études étymologiques di Marco Antonio Canini (dimenticate e sottostimate, come un po’ tutta l’opera di questo ottocentesco profeta dell’europeismo), Nàrkissos è associato alla radice semitica nyr, luce splendore chiarore (Egizio nefer, bello, greco Heméra, giorno); e anche Dante sarà, infatti, rapito, stupefatto, reso torpido ed annientato, dalla luce eterna e abbacinante della contemplazione divina; ed estasi narcissica, oltre che apertura alla trascendenza, Amor sui, oltre che Amor Dei, o meglio amore di Sé come imago Dei, come riflesso terreno del Divino ‒ visione del Sé come Altro, come specchio interiore e terreno del totaliter Aliud ‒, è la vita contemplativa, la beata visio, il bìos theoretikòs: «Per piacermi allo specchio, qui m’adorno; / ma mia suora Rachel mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno» (Purg., XXVII, vv. 103 sgg.): la figura che personifica ed incarna l’autocontemplazione spiritualmente pura è, come la Dame Oisive del Roman de la Rose (e come, poi, l’Hérodiade di Mallarmé e la Francesca da Rimini di D’Annunzio), Donna-Parola, ipòstasi della Letteratura insidiata dalla Storia.
Ma l’autocoscienza, proprio in quanto, eminentemente, autoriflessione estetica, proiezione dell’intelletto, della coscienza, della creazione su se stessa, si traduce in parola e in immagine analogamente riflesse, iterate, riverberate, in un gioco ininterrotto di proiezioni, prospettive e replicazioni. Questo fin dai celebri versi di Ovidio, che diedero al mito la sua forma, la sua millenaria cristallizzazione verbale in cui finisce poi per risolversi la sua essenza, e trasformarono così il mitologema in mythos, l’immateriale fondo concettuale simbolico in materialità, trasmessa e perpetuata, di canto e d’espressione.
«Cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse: / se cupit imprudens et qui probat, ipse probatur, / dumque petit petitur, pariterque accendit et ardet» (Met., III, vv. 424-426).
Dirà il Marino: «Invidia a quell’umor liquido e molle / la forma vaga e ‘l simulacro altero / e, geloso del bene ond’egli è privo, / suo rival da la riva appella il rivo». «Tal fu il destin del vaneggiante e vago / vagheggiator de la sua vana imago» (Adone, V, 26-27).
Con un gioco, esso stesso narcisistico, di autorispecchiamento, la poesia barocca trovava riflesso, nel metastorico manierismo ovidiano, l’anelito stesso della propria essenza liquida ed illusoria. Come Eco, respinta da Narciso dopo un’ecoica schermaglia di ambiguità del senso, semantiche e sensuali («huc coeamus», «sit tibi copia nostri»), è divenuta «pura voce», così Narciso subisce la pena, e insieme la sublimazione, di essere mutato in fiore, e di conseguenza in simbolo materiale, in emblema senza corpo e materia, in puro significato mitico, da cui trarre alimento per nuove forme e nuove creazioni.
I giochi di parole (echi, iterazioni, paronomasie, parallelismi, isocolie) che la trattazione letteraria del mito di Narciso sembra sempre recare con sé come elemento caratterizzante connotano, e quasi visualizzano, questo carattere di duplicità, di rispondenza, di unità fra medesimezza e alterità ‒ con quell’implicita schizofrenia che fa, quasi, della rappresentazione plautina di Sosia nell’Amphitruo una forma grottesca, carnevalesca, straniata, non ancora idealizzata e sublimata, da quella duplicitas che sarà incarnata anche dal mito di Narciso: «Ubi ego perii? Ubi immutatus sum? Ubi ego formam perdidi?». Nel suo vedersi altro da sé, e sé come altro, il Soggetto perisce, e si perde, proprio mentre cerca di possedere se stesso.
La modernità del mito è confermata, paradossalmente, dalla sua antichità ‒ o, meglio, dai suoi riverberi postclassici. In Euforione, il frammentario profeta ellenistico del moderno obscurisme, si ha la possibile identificazione di Narciso ed Eutelide, il quale infligge a se stesso un misterioso male, noûsos aeikés, ammirando la propria chioma splendida ed intorta nel gorgo (dìne) di un fiume (fr. 175). L’autocontemplazione estetica assume, già qui, la forma potenziale ed insidiosa del gorgo, del Gouffre, dell’Abyme, dello smarrimento e della nientificazione, come in Mallarmé; e si pensa al miroir profonde et sombre che è Leonardo agli occhi di Baudelaire, al «gorgo» in cui Pavese scenderà, «muto», con l’amata dagli occhi di morte, o al D’Annunzio di Alcyone: «Fa’ ch’io veda l’imagine / puerile di te presso l’imagine / di me nel cupo speglio» (la proiezione narcissica, ripiegata, del sé raccolto su se stesso racchiude e comporta, accanto alla pulsione di morte, anche l’idea della regressione al grembo materno, o almeno allo stadio infantile, come la riflessione psicanalitica ha da tempo suggerito).
Lo stesso, o qualcosa di simile, in Montale, in un testo celebre, che trae la mossa iniziale («Cigola la carrucola del pozzo») proprio dal Notturno di D’Annunzio: la visione, che dapprima «rideva», dantescamente, nel «puro cerchio», infine è nuovamente attratta e risucchiata dall’«atro fondo», dall’abisso della distanza, dell’alterità, della perdita.
Come in Ovidio: «Quod perdis, est nusquam: / quod amas, avertere, perdes. / Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbrae». Volgendosi («rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me …»: ancora Montale), Narciso annulla, ipso facto, la propria immagine riflessa, senza nemmeno poter avere coscienza del suo dissolvimento; Narciso, allegoria del Soggetto poetico, è nudum nomen, flatus vocis, umbra repercussae imaginis, «simulacro d’immagine riverberata»; vacuo nome, segno o traccia affidati all’aria, o all’egualmente esile e flebile pagina; ad unire il giovane al fiore in cui egli si è mutato non è, a ben vedere, che un nome, Narciso, sottile ed arbitrario e artificioso termine medio (ground, direbbero Ogden e Richards) dell’analogia, della remota e perduta identificazione mitica.
Così già Petrarca: «quella che n’ha portato i pensier miei / né di sé m’ha lasciato altro che ‘l nome»; il poeta, il soggetto lirico, allora, nudo e smarrito, appaiono simili a Narciso, ma insieme anche ad Eco («et così scossa / voce rimasi da l’antiche some, / chiamando Morte, et lei sola per nome»: disincarnato, e insieme regredito allo stato minerale, inorganico di «dura selce», l’io lirico non è che pura voce, la quale reitera il nome di colei che fu alimento della sua facoltà creatrice, e ora non è che pura e inafferrabile ed oscura luce di pensiero ‒ «che m’è rimasa nel pensier la luce», recita il suo verso forse più amato da Ungaretti ‒ «Il me suffit d’entendre une si pure voix / Si transparente et si profonde, / Où ta promesse luit comme un joyaux sous l’onde», si leggerà in Mon Faust di Valéry).
Come è logico, è nell’estetismo ‒ incline alla celebrazione e all’autocelebrazione della Bellezza pura, di quella «Bellezza inanimata e sola» che il Marradi rimprovererà a D’Annunzio di idolatrare ‒ che il mito di Narciso, come rappresentazione emblematica dell’autocontemplazione estatica e adorante, acquisisce un preciso valore metapoetico. Ad esempio, il Traité du Narcisse di Gide mostra «un Narciso sognante, perduto nel grigiore», fermo «in riva al fiume del tempo», «dove, dietro, la vuota noia si distende»; sorge, poi, una fantasmagoria d’immagini, che si colorano sotto il suo sguardo e subito fuggono nel passato; il fluire del tempo è come un vento che sfoglia il Libro del mistero, che sfiora e disfiora i geroglifici in cui è racchiusa la verità nitida, immobile ed eterna, dell’Idea; più che struggersi per amore di se stesso, il Narciso di Gide contempla, nell’immagine specchiata dalla sua stessa pupilla, la totalità fluente del passato, la cangiante immobilità degli archetipi.
La sorgente in cui Narciso si contempla è ormai attraversata e avvivata da quello che sarà l’élan vital di Bergson, e che già era il perpetuo fluire delle sensazioni teorizzato da Walter Pater, nel quale gli oggetti «burn and are estinguished with our consciousness of them», avvolti dalla «hard gem-like flame» della passione estetica. Insieme a se stesso, e più che se stesso, Narciso contempla, incantato, il proprio mutare, e l’oscuro fondo inconsistente che vi soggiace.
Il Traité du Narcisse è dedicato a Paul Valéry, autore egli stesso di Fragments du Narcisse, ove il bellissimo giovane è presenza/assenza, immagine nitidissima, netta, scolpita, eppure tremolante, precaria, sfumata ‒ viso/sogno, «Qu’une absence divine est seule à concevoir». Narciso esiste solo nella sua immagine riflessa, e venerata e divinizzata come una tremula ed effimera icona: «onde déserte», «clair tombeau qui s’ouvre».
Il narcisismo cela la pulsione di morte: l’immagine riflessa, per quanto ammaliante, è «chiaro sepolcro» ‒ anzi forse ammalia anche e proprio perché dischiude l’eterna dolcissima quiete dell’annientamento. «Dans le repli de l’amour de soi-même», nelle pieghe recondite dell’amore di sé, si nascondono il vuoto e il silenzio di una «fontaine éteinte».
«Nel silenzio della sera», non è più possibile illudersi che la propria ingannevole immagine sia eterna, come quella divinità vacua e muta a cui pretenderebbe di assurgere (insegna ancora la psicanalisi che la visione religiosa del Dio-Uomo, e dell’Uomo-Dio, riflette la dinamica narcisistica dell’uomo che si vede in Dio e di Dio che si compiace dell’uomo ‒ mentre vedere l’amico come un altro se stesso, secondo l’etica stoica, o amare il prossimo tuo come te stesso, presuppone che, come nel rispecchiamento narcisistico, anche il Sé sia, di rimando, visto e contemplato e venerato come Altro). Il Narciso dell’estetismo sa bene che non può vivere senza il suo liquido riflesso, la sua fluente icona. In un poemetto in prosa di Oscar Wilde, le acque, esse stesse divine, in cui Narciso si specchiava affermano di non aver ammirato la bellezza di Narciso, ma se stesse riflesse nei suoi occhi.
Rilke, legato a Gide e a Valéry da rapporti epistolari e sintonia intellettuale, riprende questi concetti. «Ciò che emanava riassorbiva in sé il suo amore / e più nulla di lui era nel vento aperto / e chiuse il cerchio delle forme estatico / e si abolì e non poté più essere». Con un movimento di ek-stasis, di uscita da sé, di autotrascendimento, Narciso va incontro a se stesso, al proprio sé riflesso, fino all’implosione, all’inflazione, alla conflagrazione, con un moto che sembra far eco alla pulsazione del cosmo. L’apertura si risolve in chiusura, e infine in mallarmeano annullamento del Soggetto ripiegato su se stesso, Aboli.
In Italia, il poeta che forse più intensamente fece proprio questo ammaliante ed illusorio fluire di riflessi, parvenze, profumi, essenze, fu Govoni: «I miei desideri, odorosi Narcissi»; «simile ad un oggetto in uno specchio»; «Gli specchi sono i muti reliquiari»; «sotto il liquido specchio compiaciuto»; «specchio che d’ogni musica s’informa». Le correspondances simboliste assumono e rivelano, in questo illusorio confluire verso il centro del Soggetto-specchio di se stesso, la propria precarietà, la propria marginale, provinciale fallacia, la propria grigia e smorzata melodia. Siamo, con Govoni, al crocevia, o al confine, fra simbolismo e crepuscolarismo.
I desideri non sono che proiezioni del Soggetto, illusioni conoscitive, diffrazioni dell’io, narcisi ulteriori germinati da un Narciso primario e originario. E, nei crepuscolari, il Narciso che si specchia è ormai un fiore pallido, esangue, estenuato. «Rassegnato come uno specchio, / come un povero specchio melanconico» (Corazzini). «Come uno specchio vano si moltiplica» (Gozzano). La multiple splendeur dei simbolisti, le prismatiche diffrazioni mallarmeane del Soggetto e del Senso, sfociano ora nel vuoto e nel grigiore dello sguardo melanconico ‒ senza perdere, per questo, la loro tensione gnoseologica.
Da Freud a Lacan (lo stade du miroir), il Narcisismo è espressione verbale vuota, risonante (per quanto, nel secondo, proiezione e rivelazione dell’Autre), che cresce su se stessa e fa eco a se stessa; aboli bibelot d’inanité sonore, secondo l’emblematica espressione di Mallarmé. Sua tipica, elettiva espressione è il discorso onirico: autocompiaciuto affiorare di energie psichiche, di contenuti psichici latenti che emergono in forma figurata e mediata; discorso silenzioso e insieme risonante, immateriale eppure sensibile e percettibiile, discorso che rappresenta, in fondo, primariamente se stesso, che si bea di se stesso («già si beava, sola, del suo verbo», come nella parola mistica e metafisica) e vorrebbe non più, non mai terminare, perdurare nel suo catartico e liberatorio equilibrio (così il Fauno di Mallarmé si domanda, al tramonto della sua visione meridiana, al dissolversi della fantasmatica proiezione del proprio immaginario, al venir meno del trasporto dionisiaco ma, in fondo, autoerotico: «Aimai-je un rêve?», mentre il Soggetto lirico, egualmente inebriato di se stesso, stordito dalle essenze floreali che la sua stessa Parola ha emanato, all’opera nella Prose pour Des Esseintes dello stesso Mallarmé, cerca di rassicurarsi circa la propria esistenza una e duplice: «Nous fûmes deux, je le maintiens»).
Ma il ripiegamento narcisistico è anche melanconia che può portare al suicidio, mancato superamento del complesso di Edipo e, dunque, persistenza inesorata del complesso di castrazione: ciò che Lacan paragonava alla barra, perentoria e recidente, che Saussure poneva fra Significante e significato, fatalmente divisi dall’arbitrarietà del segno (o, se si vuole, alla «fessura intra-coscienziale» che, per il Sartre dell’Essere e il Nulla, lacera il Soggetto, e che è il «puro negativo», «un niente al di fuori di ciò che nega»), e dunque alla forclusione e alla proibizione del «Nom du Père», del Divinum Nomen, del Verbo, che pure il soggetto narcisistico vorrebbe poter proferire, poter narcisisticamente dire e ridire, in esso rispecchiandosi in quanto imago Dei.
Vi sono, credo, tre poeti, tre artisti, o meglio tre intellettuali che , nel Novecento, hanno, meglio di altri, reinterpretato il mito di Narciso nelle sue implicazioni e nelle sue valenze anche storiche e ideologiche: Pasolini, Lezama Lima, Carmelo Bene.
Nel Pasolini friulano, la figura di Narciso incarna il sogno, vernacolare e romanzo, di un ritorno nel grembo materno, di un ricongiungimento con le radici prime della lingua e dell’espressione. Ma Narciso è simbolo di un’infanzia-morte, di un’innocenza e un’autenticità ormai svanite e remote, che forse solo nell’Ade, o nel regno opaco e sospeso e puro della mente melanconica, possono avere ancora una patria. «Jo ti recuardi, Narcis, ti vèvis il colòur / de la sera, quand li ciampanis / a súnin di muàrt». Ricordo, colore, morte ‒ annotati e dissolti in un grumo di suoni che si apre e si effonde e si riverbera per la trama dei versi.
Nel séguito della sua opera e della sua vicenda, Pasolini farà convivere il narcisismo, l’«alessandrinismo», l’«estetica passione», con un impegno ‒ nel senso più ampio e alto ‒ ideologico, nel segno di quello «scandalo del contraddirsi» che è, forse, rilettura laica, quasi blasfema, dello skàndalon toù stauroù, del «disonor del Gòlgota», del sacrificio cristiano ‒ semèion antilegòmenon, signum cui contradicetur, «segno di contraddizione», oggetto di opposte interpretazioni, immagine duplice, lacerata, smembrata, è già la figura stessa del Cristo, Parola incarnata.
In Una disperata vitalità, il poeta arriva a vedere se stesso come l’attore che «nella logica del montaggio narcisistico / si stacca dal tempo, e v’inserisce / se stesso», icona stilizzata, immagine illusoriamente ed artificiosamente sottratta al divenire e al fluire ‒ laddove, invece, in Gide, autore caro al giovane Pasolini, Narciso si vedeva proprio nel suo perpetuo, sfumato mutare. La morte è «nel non poter più essere compresi». Il narcisismo, pur inevitabile e vitale, dunque, in quanto ripiegamento ed autoriflessione, è anche morte. Il vuoto relazionale, la mancanza, la distanza, l’abisso, la lacerazione interiore sono «dolori» che però fanno bene alla «dignità narcissica» (Poesia in forma di rosa). Il Narcissismo, si legge in Poesie mondane, è «sola forza / consolatoria, sola salvezza».
Per il cubano Lezama Lima, Narciso incarna, invece, l’ideale della pura bellezza, della poesia pura nel senso di Mallarmé e di Valéry ‒ l’orfica religione di una Bellezza il cui culto è, implicitamente, indirettamente, contrapposto ‒ un po’ come nell’ermetismo italiano ‒ alla vuota retorica di regime (al vuoto risponde il vuoto, al cattivo, malvagio nulla travestito da totalità e da socialità risponde il nulla, fecondo perché autocosciente, della poesia specchio di se stessa, apparentemente senza contenuto).
«Dánae teje el tiempo dorado por el Nilo / envolviendo los labios que basaban / entre labios y vuelos desligados». Il richiamo alle ascendenze orientali ed egizie del sacrificio orfico-dionisiaco evoca l’idea, arcana, cosmogonica, della creazione attraverso la Parola. Il narcisimo, il culto dell’immagine illusoria e l’intuizione di ciò che sta dietro l’immagine, del fugace trapelare del noùmeno, sembrano aprire una via verso l’invisibile.
Eppure, a risuonare e a riecheggiare, come percosso, è ancora il vuoto dell’assenza. «Lenta se forma la ola en la marmorea cavitad». «El espejo se olvida del sonito y de la noche». Ancora una volta l’autocontemplazione è immersa nel solco del fluire, è immagine mobile dell’eternità, o, viceversa, icona fermata ed effigiata del divenire, fotogramma isolato e notomizzato del discorso della visione, del ‒ direbbe Dante ‒ «visibile parlare».
Infine (e questa collocazione apocalittica non è casuale), Carmelo Bene, con La voce di Narciso. La sua «sospensione del tragico», la sua «macchina attoriale», i suoi artifici tecnologici affini alle maschere greche con il loro effetto di amplificazione e distorsione, sono funzionali ad una (paradossalmente mallarmiana) «disparizione vibratoria» del Soggetto, alla fine dell’illusoria e mistificante rappresentazione del personaggio, del «carattere», per via d’immedesimazione o, viceversa, di straniamento.
Il Soggetto è risolto e dissolto in pura e labile phoné, fino alla sparizione e all’inesistenza ‒ fino all’imago vocis, alla repercussae imaginis umbra. «Questa immensa cornice non ritaglia l’immagine di Lei che non fu mai. E non serve nemmeno da specchio al vampiro, poiché i vampiri non si riflettono. (…) Nel teatro del non-rappresentabile, l’Attore è infinito. (…) È l’infinito della mancanza di sé». L’Abyme in cui, in Mallarmé, si perde infine Igitur, chino sulla «cendre des astres». Eppure, proprio Carmelo Bene, spinto fino all’estremo, fino alle soglie della nientificazione, lo spazio teatrale, come Mallarmé aveva fatto (iuxta Blanchot) con lo Spazio, il Luogo-non-luogo, onnidimensionale ed impalpabile, della Parola, sembra indirettamente prospettare, per il poeta e l’intellettuale d’oggi, una sorta di superamento del narcisismo attraverso il narcisismo stesso, o senza nemmeno uscire del tutto dal narcisismo, che è positivo e vitale quando serve a difendere il Soggetto dal rischio di un’alienazione e di una reificazione economiche o ideologiche, e a ribadirne l’autonomia, la libertà, la regalità di imperium in imperio, di dominio all’interno, o anche al di sopra e al di fuori, di un potere e di un sistema strutturati ed opprimenti.
Narcisismo, si è detto, da superare attraverso il narcisismo stesso (come Pirandello teorizzava un superamento del tragico attraverso il tragico stesso, e del comico attraverso il comico): da superare, cioè, senza uscire dalla forma, dallo stile, dalla ricerca espressiva, e anzi agendo sui di essi, per spezzarne il cerchio chiuso ‒ come Zarathustra schiaccia la serpe dell’eterno ritorno da cui pure, per Amor Fati, è rapito e inebriato. Scrive Seamus Heaney, in Personal Helicon, quasi rovesciando il motivo ‒ dannunziano montaliano pavesiano ‒ dello specchio oscuro in cui vedersi, o non vedersi, e perdersi (in un orizzonte, quasi, di vertigine apocalittica, di apocalittica dissolvenza del significato):
To stare, big-eyed Narcissus, into some spring
Is beneath all adult dignity. I rhyme
to see myself, to set the darkness echoing.
In quell’oscurità risonante, in quel vuoto e in quel nulla che pure parlano, dicono, significano, ossia plasmano ed emanano segni, è forse un’estrema, assurda e quasi beffarda, speranza.
Certo negli ultimi decenni la poesia ‒ e forse quella di carattere avanguardistico e sperimentalistico, con i suoi stilemi a volte ripetitivi, meccanici, sordamente germinati su se stessi, più ancora che quella lirica, maggiormente legata, almeno in potenza, all’autenticità di un vissuto esistenziale ‒ è stata incline, sempre di più, ad un ripiegamento narcisistico, ad una chiusura autoreferenziale. La poesia contemporanea, forse ‒ e anche la filosofia, ad essa legata sotto il segno del pensiero poetante e dell’ontologia del linguaggio, e spesso risolta o dissolta in sottigliezze testuali e giochi paretimologici scissi da ogni esperienza della società e del vivere ‒ ha, forse, troppo spesso ascoltato se stessa e se stessa soltanto, beandosi, ebbra, della propria voce.
Essa è caduta, si potrebbe dire con Louis Lavelle, nell’«errore di Narciso». Narciso non può fare a meno di Eco ‒ suo prolungamento, suo doppio, sua ombra, e insieme personificazione della sua autocoscienza, come pure della sua assenza, della sua della sua inafferrabilità, del suo vuoto. L’eco rompe il silenzio solo per autenticare il solipsismo di Narciso; essa è «resonance à sa solitude même». La risposta stessa dell’eco, che imita le parole di Narciso, è «imitazione di una risposta». Essa lo rapisce in un mondo illusorio, «où sa propre existence se dissipe». Eco è «la conscience qu’il a de lui-même». Ella reitera le parole di lui, «dans un refrain mutilé et ironique».
Anche l’ironia, la demistificazione, la dissacrazione, a cui spesso la poesia e il pensiero della modernità hanno improntato il loro rapporto con il passato, la tradizione, il monumentum, non sono stati, sovente, altro che nuda eco, riverbero del vuoto, ombra di un’ombra. Del resto, già da Petrarca («Valle che de’ lamenti miei se’ piena») a Leopardi («ed erra l’armonia per questa valle»), fino a Baudelaire («de longs échos qui de loin se confondent») e a Valéry («J’attends l’écho de ma grandeur interne»), la poesia è colma d’echi, iterazioni, riverberi, come tortuosamente riversa su se stessa, e in pari tempo tesa a catturare tutto l’universo del reale e del pensiero per avvolgerlo nel proprio grembo sonoro, nella propria vischiosa ed avvolgente rete di fonemi.
Forse a Lavelle si può rispondere con Frankl ‒ al narcisismo nullificante rispondere con una «volontà di senso», con un «autotrascendimento» che vada incontro all’Altro, che si misuri con l’Altro senza snaturare il Sé, e anzi colmandolo di nuovi sensi, di nuovi valori.
E se, uscendo da sé, il Sé troverà il Nulla e il Nonsenso (come pure è accaduto, da Kafka a Celan all’ultimo Caproni o all’ultimo Bigongiari), ebbene, attraverso il filtro dell’autocoscienza, lo schermo, non rassicurante, ma tragico ed eroico, della consapevolezza, anche quell’insensatezza sarà portatrice di senso, oggetto pregno di significato, e quella tenebra sarà sorgente di luce, quella vacuità eco, stavolta aperta e purificata, di un Logos forse, e problematicamente, rivelatore.