Paul Valenti è un piemontese con la passione per la scrittura, emigrato nel 1995 in Vietnam. Ho scambiato quattro chiacchiere con lui via mail e ne è emerso il ritratto di una personalità complessa ed affascinante. L’intervista che segue è un piccolo spaccato di vita di un italiano molto curioso (come sanno essere solo gli italiani) che ha avuto il coraggio di mollare tutto e di reinventarsi dall’altra parte del mondo.
Ci può raccontare come e perché ha deciso di stabilirsi in Vietnam?
«In passato molti nostri connazionali emigravano per mancanza di lavoro, cosa che purtroppo si sta verificando ancora ultimamente; io invece sono a suo tempo emigrato perché… lavoravo troppo! Subivo una vita che non era la mia, non stavo vivendo la mia esistenza. Ne vivevo una che mi aveva praticamente investito: me la ero cucita addosso come un abito e pian piano mi ero convinto che fosse il mio, anche se a volte mi accorgevo che in certi punti stringeva un po’ troppo fin quasi a soffocarmi. Ad un certo punto della mia mediocre esistenza ho deciso, come nelle fiabe, di mettere in pratica quel desiderio di diserzione comune a molti e di mollare tutto e volare via: talvolta è meglio perdersi sulla strada di un viaggio impossibile che non partire mai… Così nel 1995, alla significativa età dei 33 anni, sono arrivato in Vietnam, confine ultimo dell’intangibile logica orientale. Sono sempre stato un amante del Sud-est asiatico. A quel tempo quasi tutti coloro che si spingevano in questa parte del pianeta sceglieva di approdare in Thailandia o a Bali o nelle Filippine. Il Vietnam si stava in quel periodo aprendo al mondo e nel 1994 il presidente americano dell’epoca, Bill Clinton, aveva revocato l’embargo, in atto ormai da 20 anni. Stavano quindi maturando le premesse per la nascita di una nuova meta nel panorama mondiale delle destinazioni, e ho ritenuto opportuno essere tra i primi ad approdarvi».
Le autorità italiane in Vietnam le fanno sentire che l’Italia è ancora vicina, oppure l’hanno “abbandonata” al suo destino?
«L’appartenenza ed il conseguente sentimento di vicinanza all’Italia è una cosa che porti dentro, specialmente lontano da essa, indipendentemente dalle autorità più o meno presenti. È vero che a livello organizzativo vedo altri Paesi più preparati a sostenere i propri cittadini in Vietnam, ma troppo spesso questa considerazione porta ad una facile e inappropriata polemica nei confronti dei nostri rappresentanti, che non mi sento di condividere».
Com’è per un italiano vivere in Asia?
«Ritengo che per la maggioranza dei casi l’integrazione della persona occidentale in Asia è un processo che non potrà mai completarsi in modo totale: purtroppo, o per fortuna, tra la cultura occidentale e quella orientale c’è un abisso ben più profondo di quel che può apparire. E forse è proprio questo il bello! Un italiano in Asia cerca di costruirsi una trincea di abitudini tipicamente nazionali alle quali difficilmente può rinunciarvi a lungo, e nello stesso tempo convive ai bordi di quell’abisso culturale, trovandosi coinvolto in un alternarsi emotivo che lo porta a volte a combattere contro mulini a vento più o meno immaginari, e altre volte a gioire del privilegio di essere parte dell’affascinante scenario che lo circonda.
Qual è la difficoltà principale che ha dovuto affrontare prendendo domicilio nel Vietnam?
«Il sentirmi tagliato fuori dal mondo, con limitatissimo accesso a notizie ed informazioni, catapultato in una realtà tanto diversa come era quella del Vietnam nel 1995. Considerando però che bisogna già essere portatori di una sana follia, combinata con un onesto fatalismo, per decidere di trasferirsi da queste parti negli anni 90, ammetto di avere superato questa ed altre difficoltà abbastanza in fretta, tanto era la mia curiosità ed il coinvolgimento per questo nuovo mondo che mi aveva accolto. Ancora oggi incontro gente che ammira il mio coraggio di avere abbandonato tutto ed essere venuto a vivere in Vietnam però, diciamoci la verità, coraggiosi sono coloro che, nel nostro mondo occidentale, ogni mattino s’alzano e vanno a lavorare in fabbrica o in ufficio e che lavorano tutto il giorno ad intensi ritmi; oppure coloro che il lavoro non ce l’hanno proprio e che fanno enormi sacrifici per mantenere la famiglia… Questi sono da ammirare, coloro che resistono malgrado le ciclopiche difficoltà da affrontare e che ancora non si sono abbandonati alla fuga da se stessi rifugiandosi nell’altrove, se non con la fantasia… Se ti sai gestire, il Vietnam ti permette di ritagliare un tuo piccolo angolo di mondo decisamente meno affannoso ed inquieto, per non dire spensierato, di quanto te lo possano permettere i nostri Paesi occidentali più sviluppati, con tutte le loro complicazioni di un vivere sofisticato e per certi versi innaturale».
È più tornato in Italia?
«Certamente. Ci torno ogni 1 o 2 anni, inevitabilmente in estate: penso potrei morire di freddo se dovessi incappare in un inverno di quelli seri… Non sono mai stato un amante del gelo e tantomeno lo sono oggi, abituato come sono alle stagioni tropicali, che vanno dal piuttosto caldo al molto caldo passando attraverso il periodo caldo… Bellissimo, specialmente se, quando necessario, puoi usufruire di quel balsamo artificioso di benessere e refrigerio che è l’aria condizionata! È sempre piacevole visitare l’Italia, che lo ritengo uno dei Paesi più belli al mondo, se non il più bello. A volte bisogna viaggiare per mezzo pianeta per comprendere veramente le qualità dell’Italia, con tutte le sue sfumature di bellezza ed eleganza. Purtroppo le molte problematiche, le difficoltà economiche e l’atmosfera piuttosto depressa che si respira hanno fatto del nostro Paese un bellissimo museo da visitare, ma una destinazione molto difficile alla quale adattarsi: sono felicissimo di trascorrervi le vacanze ma, sinceramente, non tornerei proprio a viverci stabilmente».
Cosa consiglia agli italiani che desiderano fare la sua stessa scelta di vita?
«Di tenere nello stesso tempo i piedi per terra e la testa tra le nuvole… Come ironicamente ho detto prima, innanzitutto è necessario essere portatori di sana follia combinata con onesto fatalismo per adattarsi a questa quotidianità. Non bisogna essere troppo seri in Asia: non c’è spazio per la serietà oppure finirà col roderci tutti gli altri sentimenti. Scelta la meta dell’eventuale espatrio, consiglio naturalmente di soggiornarvi per un periodo più o meno lungo e di soppesare le possibilità di successo dell’attività che si intende avviare con molta attenzione e, soprattutto, con umiltà. Ho visto troppi italiani, e non solo, arrivare atteggiandosi da grandi portatori di idee assolutamente vincenti, e poi fallire miseramente dopo pochi mesi. La prima impressione che si può avere visitando il Vietnam, è che manchino molte tipologie di attività o di prodotti e che quindi vi siano grandi vuoti da colmare sul mercato. Purtroppo però nella stragrande maggioranza dei casi, tali tipologie mancano semplicemente perché… ne manca la richiesta! Va fatta un’attenta ricerca di mercato e va comunque considerato che ormai anche qui la realizzazione di qualunque idea richiede capitali non indifferenti, non necessari a suo tempo».
"Io amo me stesso. Ma è amore non corrisposto" di Paul Valenti (edizioni L'Autore Libri Firenze)
Ci racconti il suo rapporto con la scrittura: com’è cominciato e cosa significa per lei?
«Fin da bambino coltivavo una vaga ambizione di fare il mestiere dello scrittore, piuttosto dei più comuni “astronauta” o “calciatore”, infatti ricordo ancora i primi racconti con il mio cane protagonista di improbabili epopee. Da allora nel corso degli anni, o più pecisamente dei decenni, è stato un alternarsi di frustrazioni ed illusioni che mi hanno in qualche modo portato a partorire il libro in questione. Oggi mi rendo conto, nel mio piccolo, di appartenere a quella moltitudine infinita di scrittori, o presunti tali, con la malcelata speranza o presunzione di essere pregiati un giorno dello stemma nobiliare di “autore gradito”, cosa sinceramente piuttosto difficile se non improbabile… Non ho mai interpretato la scrittura come un saggio di cultura o di abilità tecnica in grado di reggere l’attenzione di sconosciuti lettori, bensì come il trasferire su carta riflessioni o turbamenti che mi passavano per la testa e, soprattutto, per lo stomaco… A volte lo scrivere è una buona scusa per non occuparmi delle cose da fare, della vita pratica che mi circonda, permettendomi di sfumare in una realtà parallela e di abitare in uno stato intermedio, tra luoghi e tempi diversi. Finché sono immerso in quel mondo di parole sussurrate mi sembra di riuscire finalmente a scappare dalla vita che mi insegue con tutti i suoi doveri da compiere, le sue pretese, le sue rivendicazioni».
Di cosa parla il suo libro Io amo me stesso ma è amore non corrisposto?
«Il mio scritto raccoglie riflessioni ironiche e semi-serie ispirate al mio ruolo di “emigrante”, un ruolo che mi sono ritagliato addosso 17 anni fa dandomi all’esilio volontario, a quella strana emigrazione di quei tempi dettata più dal troppo lavoro che dalla mancanza dello stesso. Lungo un viaggio inatteso attraverso il Vietnam di ieri e di oggi, cerco di cogliere i vari aspetti più o meno ironici sondando tra i risvolti del patrimonio umano e culturale che mi circonda, all’interno di dinamiche a volte incomprensibili e decisamente affascinanti per chi, come me, ha passato una mezza vita dando per scontato e prevedibile tutta la sorprendente imprevidibilità dell’esistenza umana».