Immaginiamo l’incontro tra Alberto Moravia e Yukio Mishima. Anzi no, non serve immaginarlo, perché questo incontro c’è stato d’avvero nel 1967. Un bel giorno Mishima (all’anagrafe Kimitake Hiraoka) va a prendere Moravia in albergo con un macchinone americano guidato da sua moglie. Mishima era, usando le parole di Moravia, «molto piccolo ma con quell’aria marziale, energica, virile e aggressiva che hanno talvolta i giapponesi. Aveva un volto di un ovale perfetto, dai tratti oltremodo regolari e immobili, un po’ simile a una maschera». Quale maschera? Quella del samurai. L’autore giapponese, negli ultimi anni della sua esistenza, ha cercato di aderire, fino a morirne, alla figura del guerriero giapponese. E ora parliamo del suicidio di Mishima, così accontentiamo subito quelli che cercano i pettegolezzi e consideriamo la pratica sbrigata.
Il suicidio di Yukio Mishima
Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. È il Giappone – parte del “Proclama” letto da Mishima prima del seppuku

Mishima poco prima del suo suicidio
Nel film Patriottismo (1966) Mishima interpreta un ufficiale che si toglie la vita praticando il seppuku. Quattro anni dopo aver messo in scena il suo suicidio Mishima decise di realizzarlo sul serio. Indossò l’uniforme del suo esercito privato, il Tate no Kai. Occupò l’ufficio di un generale delle Forze di autodifesa giapponese. Fece un discorso denso di retorica nazionalista alla folla riunita sotto il terrazzo dell’ufficio. Poi si tolse la vita. Cosa significa quel gesto? Il compimento terribile di una vita votata alla ricerca della morte oppure solo una follia? In Confessioni di una maschera (1948), Mishima faceva dire al protagonista: «Tutt’a un tratto mi assalì quel dolore acerbo che deriva dal fissare troppo a lungo un oggetto. Il dolore proclamava: Tu non sei umano. Sei un essere incapace di rapporti col prossimo. Non sei nient’altro che un animale, inumano e in certo qual modo stranamente patetico».
Un D’Annunzio giapponese
Mi piace il Giappone tradizionale. Non sono uno scrittore rivoluzionario, di avanguardia. Sono quello che sono. – Yukio Mishima
Un D’Annunzio giapponese, così lo descrisse Moravia. Mishima «abitava in una straduccia quieta e solitaria, al di là del cancello ho intravveduto con sorpresa una casa alta e stretta, bianca e stuccata, di stile liberty. Accanto a questa dimora occidentale, ce n’era un’altra tutta di legno di stile giapponese. Più tardi ho appreso che era la dimora dei genitori di Mishima. Di fronte alla casa c’era un giardino minuscolo tutto coltivato a erba, all’inglese». Della fascinazione (erotica) per la morte eroica, quella che si ottiene sul campo di battaglia, tanto esaltata nei suoi romanzi, non c’era traccia. Moravia notò una certa vicinanza tra il gusto di Mishima e quello del Vate. Mishima fu traduttore de Le martyre de Saint Sébastien di Gabriele D’Annunzio che riteneva «un grande scrittore».
Il mio metodo di lavoro è scrivere molto
28 romanzi (contando quelli pubblicati in Italia) non sono pochi per un uomo di 45 anni. Mishima scriveva «il più possibile» e con questa espressione si potrebbe concludere il suo “manuale di scrittura”. In Una stanza chiusa a chiave Mishima racconta la lunga agonia di Kazuo, giovane impiegato del ministero delle finanze, condannato a vivere senza uno scopo. Tokyo, che fa da sfondo a questo racconto lungo, appare in piena ricostruzione ma ancora ferita dalla guerra. Il giovane protagonista (per inciso, Mishima ha lavorato nel ministero delle finanze dal 1947 al 1948) vaga senza pace per la città. L’unico luogo in cui riesce a trovare una ragione di vita è la stanza chiusa dove si incontra con una bambina. Una stanza chiusa a chiave, pubblicato nel 1954, è il frutto della rielaborazione dei diari tenuti dallo scrittore durante il servizio al ministero delle finanze. Nel frattempo, prima del 1954, Mishima aveva già scritto e pubblicato 8 romanzi e questo testimonia la sua frenetica e costante attività letteraria.
Gli intellettuali effeminati
La letteratura non ricorre a trucchi, bensì a meravigliose frasi ed a descrizioni incantevoli, che rapiscono l’animo, con le quali ci rivela che la vita umana non ha alcun significato e che nell’uomo si cela una malvagità che non sarà mai redenta. – da Lezioni spirituali per giovani samurai
L’omosessualità di Mishima è stata a lungo discussa, emerge prepotente da molti suoi testi e non trova aperto riscontro nella sua vita pubblica. Nel saggio Lezioni spirituali per giovani samurai (scritto tra il 1968 e il 1989) Mishima racconta: «Quando frequentavo il liceo – naturalmente in tempo di guerra – alcuni degli studenti più baldanzosi, appartenenti all’ala militarista, durante un dibattito attaccarono me e alcuni miei compagni, pur senza pronunciare i nostri nomi, affermando che in quel periodo di crisi in cui il Giappone rischiava l’annientamento era vergognoso che nella nostra scuola esistessero degli effeminati letterati dai visi smunti. Le giudicai parole idiote e decisi con ancor maggiore determinazione di dedicare la mia vita alla letteratura: non avrei mai immaginato che, alla distanza di un ventennio, avrei io stesso denunciato l’effeminatezza dei giovani letterati». Il saggio prosegue mettendo in guardia i giovani dalla “vera letteratura” capace di portare verso il baratro di un cinismo altezzoso e sciocco. La soluzione? «Basta praticare il kendō e brandire una spada di bambù per evadere, anche se per brevi istanti, dal pantano del nichilismo».
Eros e Thanatos all’ombra del Fujiyama

Yukio Mishima in America
L’erotismo, come sempre accade nelle storie di Mishima, è al centro dell’attenzione. Un erotismo soffocante e problematico, coperto da una pesante cappa di morte. Mishima aveva conosciuto la morte durante la guerra: era la sola speranza di interrompere l’agonia quotidiana fatta di fame, stenti e lutti. In tempo di guerra c’era la speranza di una morte epica, in tempo di pace la morte non era che una fregatura: un incidente, ma malattia grave, niente che stuzzicasse il gusto estetico di un giovane samurai. In tempo di pace si poteva pensare a vivere. Ma vivere per quale scopo? Forse vivere per vivere, senza un vero motivo. Nella prosa dell’autore giapponese emergono la meschina vita quotidiana e le “preoccupazioni” stupide che conosciamo tutti: l’inflazione, l’economia in crisi, l’instabilità politica, l’anarchia della società, il comunismo, i sindacati, gli scioperi, la politica corrotta. Tutte queste cose, ampiamente trattate nelle sue opere, infastidivano Mishima che era alla continua ricerca di un valore per cui valesse la pena di morire. Alla fine pare l’abbia trovato.