Luigi Calabresi: basta pronunciare il suo nome. Per tutti questi anni è bastato questo perché si scatenasse un acceso dibattito e si facessero le più improbabili congetture. Ogni volta gli viene affibbiato un differente carattere. una maschera nuova. Questo tsunami di ricostruzioni, ipotesi, giudizi, opinioni politiche e simpatie personali ha finito col travolgere la realtà, rendendoci naufraghi di una verità che era nostro diritto sapere.
Sebbene sia inconfutabile il fatto che Calabresi è stato e sempre rimarrà una vittima, e chi vi scrive si unisce alla famiglia nel ricordo e nel dolore, non si può purtroppo dire con certezza che egli abbia lavorato per la legalità. In quei giorni egli non fu certamente l’unico all’interno della Questura di via Fatebenefratelli a porsi al di sopra della legge in nome della legalità. Però fu sicuramente l’unico a pagare con la vita il prezzo di un sistema di cui faceva parte e che lo ha inesorabilmente stritolato, offrendolo come vittima sacrificale a coloro che non cercavano giustizia ma vendetta. In quale altro modo si può spiegare il fatto che gli fu mai affiancata una scorta?
Comprendiamo il clima di terrore di quegli anni e immaginiamo la confusione che regnava tra le forze dell’ordine nei giorni successivi all’attentato di Piazza Fontana. Ma è proprio in quei momenti che da uno stato democratico ci si aspetta il massimo dell’efficienza e della correttezza.
Perché sebbene un fermo di Polizia potesse durare al massimo quarantotto ore, Pinelli fu interrogato per ben tre giorni? Se si fosse agito nella legalità, alle fine delle quarantotto ore se ritenuto estraneo ai fatti egli avrebbe dovuto essere rilasciato o viceversa portato in carcere. Comunque non avrebbe dovuto essere in quell’ufficio.
Perché il questore Marcello Guida, la notte stessa della morte, fece queste dichiarazioni alla stampa “Era fortemente indiziato di concorso in strage, il suo alibi era crollato, è stato un gesto disperato, una specie di autoaccusa” anche se le indagini successive stabilirono che l’alibi risultò confermato e che al momento della sua morte non c’erano prove o indizi a suo carico?
Perché non fu mai possibile processare coloro che furono coinvolti in questa tragedia? Perché ogni richiesta di rinvio a giudizio finiva con l’essere archiviata? Non è forse legittimo chiedere che i questori, i commissari e i poliziotti, che difendono la legge ,vengano da essa giudicati come tutti gli altri cittadini?
Molte ancora potrebbero essere le domande perché le risposte che ci furono date in quegli anni non sembrano complete per il continuo sottrarsi a ogni confronto, per le deposizioni contraddittorie dei testimoni oculari della morte di Pinelli, perché sembra impossibile che non ci sia nulla da nascondere dove non si vuole andare a cercare.
Così ai cittadini fu restituita una versione della verità, percepita però da molti come una verità distorta che ha generato quell’odio e quella sete di vendetta sfociata nell’omicidio Calabresi mascherata da giustizia proletaria. “L’omicidio politico – riportava Lotta Continua commentando la morte di Calabresi – non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalista. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.
Ma il pensiero di Pinelli era tutt’altra cosa: “L’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla. L’anarchismo è ragionamento e responsabilità”. A mio avviso, valori questi condivisibili da tutta la società civile (commissari e ferrovieri compresi). Oggi come allora si sente il bisogno di verità, ragionamento e senso di responsabilità.