Quarta intervista a David Foster Wallace e l’anno è il 1997. Questa volta dall’altra parte del microfono c’è David Wiley, giornalista del Minnesota Daily che registra un intervento importante per vari aspetti. Un buon punto di partenza è che l’intervista non s’incentra troppo sulle vicissitudini biografiche di Wallace, cosa che del resto non costituisce forzatamente un delitto e può in effetti rivelarsi interessante, ma in tanti e in troppi vanno sempre a battere sugli stessi tasti – lo scrittore moderno devastato dal contatto della propria sensibilità con la corruzione dei tempi moderni. Wallace è uno scrittore altamente propositivo e il punto di partenza dell’intervista, il saggio E Unibus Pluram, pubblicato in Italia nella raccolta Tennis, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, prende spunto dal rapporto tra gli scrittori americani e la televisione per poi sfociare in un’analisi a tutto campo. Davanti a Wiley – e lontano dalle telecamere televisive (vedere la drammatica intervista al Charlie Rose Show per rendersene conto), Wallace suona più rilassato, più discorsivo, più libero di prendersi il suo tempo e rispondere a ruota libera alle brevi virate di Wiley. Vengono fuori il suo rapporto con Pynchon, con l’onnipresente ironia e con quell’idea di “narrativa d’immagine” anni ’90 avanzata sette anni prima nel suo saggio. Tutto questo, naturalmente, a suo modo.
The Minnesota Daily, 27 Febbraio 1997: Intervista di David Wiley
Wiley: Nel tuo saggio E Unibus Pluram parli dell’ironia in televisione e qualche volta nella narrativa come qualcosa di tossico.
David Foster Wallace: Vedi, questo è il lato difficile nel parlare di argomenti di questo tipo – ci vogliono 60 pagine di saggio solo per sviluppare la questione, e andrà a finire che mi sentirò davvero a disagio a parlare di qualcosa che dovrò improvvisare sul momento. Ora, il punto del saggio è che la funzione ironica nella narrativa postmoderna sia nata con uno scopo riabilitativo. Generalmente, ci si aspettava che demolisse l’ipocrisia – una certa maniera ipocritamente compiaciuta in cui il paese percepiva sé stesso che non poteva semplicemente più essere preso per vero. Il problema è che quando l’ironia diventa di per sé stessa solo uno stile di comunicazione sociale non andrà più a cambiare granché, è solo una moda, un modo fico di fare qualcosa – di parlare e agire, prendersi gioco all’incirca di qualsiasi cosa, te stesso compreso, restando terrorizzato all’idea di essere proprio tu l’oggetto della presa in giro. Buona parte di quest’idea proviene dal lavoro di un saggista chiamato Lewis Hyde, il quale credo abbia vissuto per un po’ a Minneapolis. Il suo era un saggio su John Berryman – credo di averlo citato in Una cosa divertente che non farò mai più. In ogni caso, Hyde parla dell’ironia come qualcosa che diviene gradualmente la voce di un prigioniero che finisce per amare la sua reclusione. Il verso di un uccello a cui piace stare in gabbia. Per esempio, se mi sento a disagio di fronte a come la cultura sia commerciale e a come tutti quanti sembrino fare capolino solo se c’è un dollaro da spremere, io decido che va bene, lo farò anch’io, ma lo farò pieno d’autoironia dicendo “Sono una troia, proprio come tu sei una troia”, e tutti ci facciamo una bella risata a denti stretti. Ma in qualche modo siamo partiti da una situazione che da principio non mi piaceva, a cui magari rinunciare costa molto, ma invece io prendo la strada più facile, sempre comunque sventolando questa patente d’ironia che mi esime da qualsiasi critica. Questo potrebbe essere il modo più veloce di affrontare l’argomento. Credo che la gente della mia età e anche i più giovani siano legati da quest’ironia, che rimane perlopiù a livello inconscio e perlopiù usata come meccanismo per evitare qualsiasi tema spinoso – è questo che penso sia tossico. L’ironia, di per sé stessa, è fantastica. Uno dei principali modelli retorici. Esiste da sempre. È di una potenza assoluta. Non c’è niente di sbagliato, di per sé stessa.
W: Credi che la stessa cosa valga per la satira?
DFW: Penso che chiunque faccia satira, e probabilmente ne ho fatta un po’ anch’io – c’è questa implicita, sotterranea idea che facendo satira creeremmo le giuste motivazioni per dare forza al cambiamento. Cosa che nei fatti non avviene realmente. Ma almeno stiamo usando la satira come segnalazione: metto in ridicolo questo spettacolo, così grottesco e inaccettabile, e di conseguenza motivo la gente a darci un taglio. Ma quando la satira e l’ironia divorziano da quel progetto, diventano un modo di comunicare fine a se stesso. E qua credo che le cose comincino a diventare oscure.
W: Hai scritto questo saggio negli anni Ottanta ma la revisione ti ha preso molto tempo, giusto?
DFW: Giusto. Ed è questa la cosa che mi mette un poco a disagio – ormai non guardo più così tanta televisione. Quel saggio mi sembra in qualche modo datato. Credo che la situazione sia solo approssimativamente la stessa. La sostanza è che c’è quest’urgenza nel tono del saggio che pensare che sia uscito sette anni fa mi terrorizza un po’. Originariamente, fu commissionato da Harper’s, e credo sia stato stampato nel 1990. Mi sembra di averlo scritto tra l’estate e l’autunno del 1990. Non funzionò. Pensarono che fosse troppo accademico. Ma questo accadde quando lo scrissi allora.
W: La tua revisione menziona Beavis and Butthead, ma hai scritto il saggio prima che il programma uscisse. E sembra che la meta-analisi di questo programma sia esattamente quello di cui stai parlando – l’idea che il pubblico che guarda Beavis and Butthead faccia esattamente quello che il programma – prendersi gioco della TV.
DFW: L’ironia sta nel fatto che chiunque con un cervello medio possa notare che mi sto prendendo gioco della TV ma allo stesso tempo ne faccio parte. Adesso, ci sono due strade che posso prendere – posso cambiare la situazione, perché è chiaramente ridicola, o posso ironicamente genuflettermi: “Non è geniale? Sono un coglione seduto qua a guardare questi coglioni che guardano altri coglioni in TV.” Diventa, a mio parere, una scusa troppo semplice per far girare il meccanismo. È un modo per continuare a fare ciò che è facile e conveniente apparendo comunque sempre fico e al passo mentre lo fai. Ecco un’altra aspetto perverso della faccenda – so che non appena ti dico tutto questo non faccio che sembrarti una specie di dissidente idealista anni Sessanta, una roba alla “Oh, invece di fare battute bisognerebbe cambiare il sistema, amico”; così quello che voglio fare sarebbe ravvivare il problema in modo che tu non ti prenda a tua volta gioco di me, giusto? E il modo in cui lo farei sarebbe per forza ironico. Quando l’ironia e il ridicolo diventano la moneta della cultura, il più grande terrore non è più che potrai criticarmi o dissentire, è che potrai prenderti gioco di me. Ed essere sincero e pronunciare cose in cui credi veramente – un’affare sempre problematico – ti espone al ridicolo in un modo tale che se stessi per dire “Bene amico, non so di cosa tu voglia parlare. Sono nella merda, e ho fatto una bella stronzata a scrivere questo libro”, non ci sarebbe nessun modo in cui potresti attaccarmi. Non c’è modo in cui si possa essere in disaccordo. Questa è la maniera in cui l’intera questione diventa tossica. Non è l’ironia in sé stessa ad essere sbagliata. È l’uso culturale a cui viene piegata e il grado di persuasività che riesce ad avere. Non sono un sociologo, né un politico, né l’avvocato del cambiamento culturale. Sto parlando da cittadino privato. La mia roba non è programmatica e non voglio rivoluzionare la cultura americana. Quello che voglio mostrare è cosa significa a livello emozionale avere 34 anni in questo paese.
W: Mi viene in mente White Noise di De Lillo – il paragrafo riguardo Il Granaio Più Fotografato D’America – i livelli di distanza critica nell’osservare qualcosa.
DFW: De Lillo, Pynchon e Gaddis e un sacco di questi scrittori credo abbiano rilevato il problema molto tempo fa. L’ironia è che [ride] quello di cui parlano sta ancora accadendo mentre noi abbiamo adottato la loro ironica, sarcastica voce come un modo per proteggerci dalla responsabilità della situazione. È come se avessimo assimilato la loro tecnica o la superficie di quello di cui parlano senza avere mai ascoltato quale fosse il messaggio.
W: Così non guardi più molta TV?
DFW: Una volta lo facevo, ma adesso – ho un videoregistratore ma non registro niente dalla TV, ne sono rimasto tagliato un po’ fuori. Ci sono un paio di programmi che vado a vedere a casa di amici. E per quel che posso aggiungere, mi sembra che la qualità della TV sia migliorata rispetto a sette anni fa. Intendo che la scrittura sia migliorata. È più intelligente. Più divertente.
W: Cosa credi che sia cambiato?
DFW: Proprio non lo so. Probabilmente ha a che vedere con la maturazione dei Baby Boomers e probabilmente i demografici – ci sono molte persone più giovani, alla moda, educate in televisione rispetto a, mettiamo, dieci anni fa. Voglio dire, la TV non è un’entità morale. Tasta i battiti del polso e impacchetta quello che crede il polso richieda. Ci sono programmi ben scritti come Seinfeld e Fraisier, oddio, ce n’è un bel gruppo – Cinque in Famiglia è abbastanza ben fatto. X-Files e Millennium sono un po’ deprimenti, ma diciamo che la TV ha scoperto che esiste un pubblico adatto a quella che viene percepita come qualità – NYPD Blue per esempio – guarda, non lo so. Sono fuori dal giro in questo momento.
W: Pensi che la scrittura sia migliore perché gli scrittori non possono rifarsi ad altri lavori?
DFW: Gli scrittori hanno sempre scritto cose più leggere – anche Faulkner scriveva film. Un sacco di scrittori ci fanno il callo. Penso che parte di tutto ciò abbia qualcosa a che vedere con il fatto che siano emersi questi autori televisivi. Credo che uno dei primi sia stato Steven Bochco negli anni Ottanta – Hill Street giorno e notte, poi Avvocati a Los Angeles, A cuore aperto e adesso NYPD Blue – lui è cresciuto insieme ai programmi. Ne dirige la maggior parte. Ha sviluppato la sua personale firma stilistica. Anche Linda Bloodworth-Thomason, che ha cominciato con Designing Women. Poi ci sono questi tipi che sono venuti fuori con Seinfeld, mi dispiace di non ricordare i loro nomi; molte di queste firme di compagnie di produzione, scrittori e registi che sono davvero, davvero intelligenti. Ma quello che è successo è che i loro lavori hanno colpito nel segno oggi, mentre credo che probabilmente anche in passato ci siano stati molti sceneggiatori e registi brillanti, abili, intelligenti e capaci che non hanno mai avuto la possibilità di dimostrarcelo perché apparentemente non c’era una domanda di pubblico sufficiente. Ciò è possibile oggi anche grazie al fatto che comparsa della tv via cavo, prima la Fox e poi gli altri canali, abbia messo molta più pressione ai network televisivi e gli abbia costretti a fare meglio. Siccome ci sono molte più nicchie di mercato, adesso premendo un bottone si può non solo girare per le trasmissioni pubbliche, ma anche attraverso Learning Channel o Arts and Entertainment, e questo ha alzato di qualche punto la posta in gioco.
W: Pensi che questo miglioramento sia una bella sorpresa o invece solo un intrattenimento popolare che usurpa ancora di più il lavoro dello scrittore?
DFW: Mi ricordo di una copertina del New York Time Magazine che riportava alcuni dei personaggi di Botchco ed altri presi da, credo, Seinfeld: l’impressione era che dicesse “Vuoi della buona letteratura? Guarda la TV.” E tutto l’articolo argomentava come la Tv avesse soppiantato le funzioni della letteratura. Io credo che la TV e i film, presi come sistemi narrativi o fornitori di narrativa e piacere, abbiano soppiantato gli scrittori di romanzi e storie brevi da ben più tempo. Penso che la nostra vita si sviluppi ai margini di una cultura che non abbia niente a che vedere con ciò che facevano gli scrittori cent’anni fa. Ho amici convinti che questa sia una cosa terribile. Per quanto mi riguarda, è solo la maniera in cui vanno le cose. So di sentirmi abbastanza a disagio verso quella stessa attenzione che poi finisce un po’ per piacermi. Se gli scrittori fossero trattati nello stesso modo in cui sono stati trattate le star televisive o i musicisti, la nostra capacità di rimanere ai margini e di osservare sarebbe deformata, sarebbe distorta. Prendi Dickens, James o Dostoevskij, riveriti dalla loro cultura e assediati come rockstar – come sono stati capaci di avere il giusto equilibrio e continuare ad avere quel loro grande intuito? – voglio dire, sarebbe veramente difficile non immaginare che tu sia differente e migliore del resto della gente se la gente ti tratta come se tu fossi differente e migliore di loro. Quindi può anche andarmi bene. Significa che non farai così tanti soldi, e magari questa è una disgrazia. Non so. Non m’importa granché. Per quanto riguarda lo stato della cultura, sono convinto che ci siano ancora molte cose che la lettura possa fare. Leggere richiede un livello di attività che la TV e i film nella maggior parte dei casi non riescono a raggiungere e penso che la lettura, a livello nutrizionale, sia probabilmente più valida di TV e film. Ma sai come vanno le cose – per la nostra salute i germi di grano sono certamente migliori delle barrette Snickers, ma io non faccio che ingozzarmi di Snickers perché sono più invitanti.
W: Pensi che oggi gli scrittori debbano guardare la televisione?
DFW: No. Credo che gli scrittori sotto, mettiamo, i quarantacinque o quarant’anni che non siano impegnati in qualche maniera con l’impatto della cultura popolare in America – o a meno che non stiano scrivendo un romanzo storico… proprio non capisco. Non guardo la televisione come strumento di ricerca o qualcosa del genere, ma sembra come se la TV, la pubblicità, la cultura popolare, l’intrusione dei media, adesso anche Internet e i circuiti d’informazione, siano parte del nostro ambiente come lo erano le nuvole e gli alberi cent’anni fa. Non so se esista un modo per sfuggirne.
W: E se ci fosse qualcuno come Kafka? Scriverebbe sulla televisione? O Bruno Shulz – lo farebbero, o continuerebbero a scrivere solamente sulle loro famiglie?
DFW: Probabilmente. Ma Kafka e Shulz scriverebbero sulla famiglia in un’atmosfera che a partire da Oprah e Montel1 oggi chiamiamo “famiglia disfunzionale”. Possediamo una serie di cliché che possiamo punzecchiare ironicamente, e potrebbero tenerne conto, perché non vogliono solo riciclarli irrispettosamente e farli sembrare spazzatura. Mi segui? Kafka non si siederebbe sul divano a fare zapping per scrivere cosa significa vivere in una cultura televisiva, perché questo è l’ossigeno. È l’atmosfera. La mia idea è che siccome Kafka si confronta con l’idea di un’umanità ripugnante e di un essere umano tanto repulsivo quanto insignificante, il fatto che una cultura così ben definita da queste superstar davvero più carine del resto del mondo – e più disinvolte, soavi, e così via – avrebbe su di lui enormi conseguenze. Se sei uno scrittore, a meno che tu non scriva fantascienza o horror, rimani impegnato con la tua cultura. E quest’atmosfera è la tua cultura. Puoi esserne felice. Puoi esserne triste. Ma è quello che è, e può anche essere affascinante.
W: Ti riferisci a Don DeLillo come ad una specie di profeta della narrativa contemporanea a causa di come alcuni suoi libri si siano rivelati profetici. Quali altri scrittori vedi farsi strada oggigiorno?
DFW: Vollmann è uno di loro. Anche il Gaddis di A Frolic of His Own, un libro basato quasi interamente su quanto litigiosa sia la nostra società, e molti dei romanzi che nascono dall’immagine di un soggiorno deve un uomo sta guardando la televisione. Mi sembra come se gli scrittori che non siano realmente impegnati con questi argomenti siano proprio quegli scrittori che sono maturati in quella specie di era realistica che furono gli anni Cinquanta e Sessanta. Updike non mi sembra scrivere di quest’atmosfera così appieno. Quando i suoi personaggi escono a mangiare un hamburger, lo fanno al Burger Bliss e non al Burger King, come se nella narrativa non si potesse usare il vero nome di un prodotto. È una mentalità davvero antiquata ed è ironico come i realisti più duri e puri, quelli che si sono specializzati nello psicodramma domestico e nelle pianure interiori del cuore, sembrino restare lontani da qualsiasi riferimento alla cultura pop – credo per la paura d’immischiarsi con materia e teoria sociali. L’idea di scrivere una narrativa realistica dove le persone non passano sei ore al giorno davanti la televisione mi sembra assurda, perché è esattamente quello che le persone fanno.
W: Ho letto Kitchen di Banana Yoshimoto, e gran parte del romanzo si svolge davanti ad una televisione.
DFW: Ma qua viene fuori il problema. I nuovi romanzi sembrano assomigliare ai film di Linklater2, dove personaggi dal linguaggio molto articolato dissezionano i Jetsons. E il problema è che tutto può seriamente trascendere da quella posa ironica, quel “Si, beh, mi fa sentire a disagio, ma, ehi! Diamoci una calmata e accendiamo un’altro cannone e tutto andrà meglio.” Tutto rischia di diventare una serie di gesti fichi e battute sagaci, e in questo caso non ti stai impegnando con la tua cultura – non fai che riciclarla. Non facciamo che cantare la stessa nota all’infinito. L’argomento che il mio saggio si proponeva di trattare è che abbiamo un problema adesso, perché se ti vuoi impegnare contro quest’atmosfera, se vuoi confrontartici ma allo stesso tempo vuoi prendertene gioco, come potrai farlo senza usare le tecniche che la TV ha già preso dalla passata letteratura ribelle e che sta attualmente utilizzando per vendere furgoncini e panini? Un problema davvero interessante.
W: Così vediamo come adesso Pynchon si stia dando da fare per tenersi al passo delle stesse tecniche narrative che la televisione gli ha sottratto.
DFW: Pynchon è un altro scrittore che considero ormai passato. Mi piacciono i suoi primi lavori. Mi piace L’incanto del lotto 49. Mi piace L’Arcobaleno della gravità. Ma il Pynchon di Un lento apprendistato e Vineland, che non mi sono granché piaciuti, sembrano riproporre sempre lo stesso scherzo: “Ma tu guarda quanto piatta e superficiale è la nostra cultura.” Va bene, mi sono detto, ma è la stessa TV a dirmelo. È sempre la stessa solfa. Non sono un grande fan di Pynchon come lo sono altri.
W: Il nome di Pynchon compare sempre nelle copertine dei tuoi libri come termine di paragone. Non ti fa diventare matto?
DFW: Pynchon per me è stato importante quando ero al college. Il primo libro che ho scritto, La scopa del sistema, fu definito da qualche critico del New York Times come uno scippo da L’incanto del lotto 49, che per la verità non avevo ancora letto. Così mi sono incazzato e me lo sono letto, L’incanto del lotto 49, trovandolo assolutamente, incredibilmente bello. Sono convinto che molto di tutto questo sia semplice marketing perché, sai, il modo più veloce di definire qualcosa è di compararlo a qualcos’altro. E avendo letto Gaddis e Pynchon e DeLillo e Coover e McElroy e Sorrentino, posso capire che il genere di cose che faccio io, o Bill Vollmann, o Richard Coover, sia certamente molto più affine a questa letteratura di quanto lo siano ad esempio Irwin Shaw o John Updike. Gli scrittori fanno comunque male a chiedersi queste cose, perché siamo tutti degli egocentrici e tutti vogliamo essere totalmente unici, non somigliare a nessun altro, per certi versi rizziamo il pelo alla sola idea che così possa essere, e ad un certo punto non c’è proprio niente da fare. L’arcobaleno della gravità è un grande libro, ma per la maggior parte del tempo Pynchon arriva quasi ad irritarmi e ad essere onesto buona parte del suo approccio a certi argomenti rimane superficiale. Finisce che questo confronto mi mette a disagio, e quando la gente continua e continua a domandarmene conto ho la sensazione che stiano pensando che lo stia derubando o che stia rimaneggiando il suo materiale, e allora m’incazzo, ma se è questo ciò che pensano significa che ho fallito. Che se le mie cose risultano derivate da qualcun altro, allora vuol dire che c’è qualcosa in quello che faccio che non funziona. Ma non fa che capitarmi tutto il tempo. Vado a vedere un film, mi piace davvero, lo raccomando ai miei amici e dico ragazzi, è una specie di questo combinato a quest’altro. È una scorciatoia talmente conveniente. E a nessuno piace che gli sia rivolta contro. Non vorresti mai avere un amico che ti dica “Sei esattamente uguale a quel nostro conoscente.” Risponderesti “No, non lo sono per niente. Io sono me stesso.” Ma non facciamo che comportarci sempre così gli uni con gli altri.
W: I nomi di Mondragon e Bodine [da Infinite Jest) sono allusioni a Kurt Mondaugen e Pig Bodine3 di Pynchon?
DFW: Jethro Bodine viene da The Beverly Hillbillies 4. Non c’è niente che richiami il Pig Bodine di Pynchon. Ma qualcos’altro però c’è. Per esempio quella scena in Infinite Jest dove i due rappresentanti [Steeply e Marathe] di due nazioni rimangono su una parete di roccia e giocano con le loro enormi ombre – persino l’uso della parola Brockengespenst, che proviene da Slothrop e Geli Tripping5 che cazzeggiano proprio su un Brockengespens6 – queste sono allusioni incontestabili. Credo che ce ne siano un paio in tutto, ma nessuna è stata pensata come una qualche specie d’allusione intertestuale. Ho solo pensato che fosse una cosa bella. Sono stato a Tucson e puoi davvero giocare con la tua gigantesca ombra e ho pensato che fosse un particolare accurato. Ma non ho mai provato ad annodare il libro con allusioni ad altri testi. Non c’è niente di sbagliato. Solo, non ne sono particolarmente interessato.
W: Mi puoi spiegare questa tua idea della Narrativa d’Immagine?
DFW: C’è una certa quantità di libri che trattano la cultura pop non come sistema di riferimenti, ma come soggetto. La prima cosa che io abbia mai letto è stata The Oranging of America di Max Apple, una storia su Howard Johnson7. Esistono archetipi davvero superficiali nelle immagini sullo schermo, e l’idea di ricordare al lettore che questi non sono altro che artifici, che dietro di loro ci sono mondi reali, attraverso il loro utilizzo come personaggi narrativi, è quello di cui sto parlando. Riferimenti: questa specie di allucinatori riferimenti alla cultura pop. Penso che Mio cugino, il mio gastroenterologo sia l’esempio lampante che ho trattato nel saggio. Ma è così imbarazzante. Non leggo una quantità enorme di narrativa contemporanea. Ci sono scrittori che mi piacciono davvero, ma per la maggior parte, molto di quello che faccio esige così tanta ricerca e letture collaterali – da sommare ai miei doveri d’insegnante – che riesco a leggere davvero poco che non sia connesso al mio lavoro. L’unica cosa che leggo per puro piacere è la poesia. E qualsiasi siano le tendenze che stanno emergendo in poesia, non mi sembrano avere niente a che fare con le tendenze della narrativa.
W: Pensi che la narrativa abbia bisogno o debba essere auto-referenziale quanto la TV?
DFW: Bisogna che tu mi definisca “auto-referenziale”.
W: Beh, come la meta-narrativa.
DFW: Un’altra cosa che il saggio cerca di fare, e che non so quanto ritenere un buon lavoro svolto, è cercare di tracciare in qualche modo alcuni di quegli impulsi nell’incremento di auto-coscienza di cui credo la TV sia in gran parte responsabile. Mettiamola in questa maniera. Fin dagli anni Sessanta, e probabilmente tu ne sai più di me, la vera battaglia narrativa si è combattuta tra una prima fazione di scrittori e teorici che essenzialmente vedono la narrativa come un meccanismo ricorsivo – William Gass, John Barth e gli altri – molti dei quali adesso pubblicano tramite edizioni accademiche o piccole come la Dalkey, dei quali il pubblico pagante non capisce granché il senso. Dall’altra parte poi c’è chi dice che la narrativa non sia per niente ricorsiva, ma referenziale – il vecchio realistico “il linguaggio è un sistema d’immagini, di parole, e scriverò una storia che vi faccia immaginare che tutto stia accadendo per davvero”. La mia opinione personale è che dagli anni Sessanta – in realtà anche dalla nascita della televisione – si sia sviluppato un grado di auto-consapevolezza culturale che mi fa apparire il classico realismo sia molto ingenuo che molto manipolativo. Almeno è quello che cerco di fare io – e non sto dicendo che ci riesca, non sto dicendo che ci riesca – ma gli scrittori che m’interessano, quello che vedo loro fare, quello che sto anch’io cercando di fare, implica provare a scrivere una narrativa che funzioni in entrambe le direzioni. Questo perché una delle cose che abbiamo imparato è che ciò che immaginiamo essere la realtà appare sempre più un’impresa linguistica. Nello stesso modo in cui abbiamo scoperto che in un esperimento l’osservatore condiziona l’oggetto osservato, in questa classica distinzione esiste una posizione che detta “Scriverò storie su storie scritte da scrittori che stanno scrivendo altre storie” – e questo gioco mi sembra del tutto svigorito. Ho letto l’ultimo libro di racconti brevi di Barth e mi sono semplicemente sentito triste per lui, perché lui lo fa così bene, ma ormai continua a farlo da oltre trent’anni. Ma d’altro canto qua si potrebbe anche dire: “Immagina, caro lettore, che tu non stia leggendo parole – che tu sia magicamente trasportato in quella giornata estiva in cui questa “famiglia disfunzionale” sarà alle corde” – non credo nemmeno a queste cazzate. Penso che oggi la posta in gioco sia più alta, molto più eccitante, con un equilibrio molto più fine. Gli scrittori che oggi ammiro come Gaddis, Cormac McCarthy, DeLillo, Cynthia Ozick, sono scrittori capaci di creare narrative avvincenti e farti sentire qualcosa per i loro personaggi, conoscerli in un modo in cui io e te non arriveremo mai a capirci l’uno con l’altro – ma allo stesso tempo riuscendo a non essere in nessun modo manipolativi o superati o falsamente ingenui su come il linguaggio possa distorcere il mondo che vivono. Mettiamola in questa maniera – io, Volmann, Powers, Franzen, Leyner, abbiamo tutti un’idea piuttosto esatta di chi siano i nostri lettori. Per lo più persone sotto i cinquant’anni che sono andati al college, dotati di un certo apparato teorico. Che sono a conoscenza della svolta nella filosofia e nella teoria degli anni Cinquanta e Sessanta. Questo è il terreno in cui dobbiamo lavorare. Credo che al lettore medio, quello che sfoglia un libro in aeroporto, non importi un beneamato cazzo di tutto questo. Perché ciò che voglia sia ciò che un altro genere di fiction può fornire – una momentanea fuga da uno stressante volo in aereo.
W: Hai già citato la Ozick in altre interviste. Non è fantastica?
DFW: Quello che c’è di più straordinario è che questa iper-educata, serissima ebrea che scrive di una cultura e di una etnia che conosco a malapena, e perlopiù attraverso i libri, è che: numero uno, la sua prosa è assolutamente brillante ma, numero due, mi trovo a provare delle cose per questa gente che sono sicuro di non sentire per la maggior parte delle persone che mi assomigliano nella vita quotidiana. C’è una magia che le storie possono creare, e quello che di più trascendente c’è nella Ozick è la sua astuzia ed estrema intelligenza con il linguaggio e la narrativa presa come artificio e così via, mentre allo stesso tempo riesce a creare questi brillanti, brillanti, brillanti racconti. Ci sono forse due o tre scrittori americani viventi che possano essere definiti straordinari con la S maiuscola, e lei è una di questi. Facciamo in modo che tutta quest’intervista sia su di lei. Sarebbe meglio parlare ai tuoi lettori più di lei che di me.
W: Il suo racconto “Levitation” riesce a mantenere una grande tensione tra la vita dei personaggi e la loro scrittura.
DFW: Scrivere sullo scrivere è affascinante e suggestivo, e scrivere sullo scrivere contro lo scrivere della vita – più ci fai caso, più questa distinzione collassa. D’altra parte, scrivere sullo scrivere può a suo modo collassare facilmente in una posa e in un gioco. Stai solo girando la manovella di un certo meccanismo. E se parlo di alcuni dei modi in cui l’ironia sembra affliggerci, intendo gli usi strategici che abbiamo messo a punto per renderci facile la vita.
W: Parliamo di Infinite Jest – il titolo prima di tutto. Viene da Shakespeare, ma la sensazione è che Infinite Jest significhi anche “Grosso Scherzo”.
DFW: Beh, doveva essere un lungo encomio per il padre morto. Ma parte del libro riguarda una cultura che ha deciso che il significato della vita consista nell’esperimentare quanto più piacere nel maggior tempo possibile e quali siano le conseguenze. È plurivalente, ma non particolarmente profondo. Non sono molto abile con i titoli.
W: Il problema dell’arte e dell’intrattenimento – sono queste cose che ci rendono umani, o sono proprio queste cose che ci degradano, come fanno con le persone che guardano il film Infinite Jest?
DFW: Mettiamola in questa maniera. Mettiamo che hai una forma d’arte davvero seria, che impone un sacco di duro lavoro, che sia un dipinto o musica o letteratura. Questa roba non sarà divertente nel modo in cui l’intrattenimento commerciale è divertente. Intendo divertente – come mangiare un Twinkie8. È come scivolare in un bagno caldo dopo una giornata pesante. È una fuga. È un rilassamento. E va benissimo, del tutto appropriato. Il pericolo arriva quando la fuga diventa la priorità assoluta. Uno dei modi in cui la televisione mi ha colpito è che la mia aspettativa di divertimento e soddisfazione derivato dal duro lavoro sia radicalmente cambiato in rapporto a quello che era per i miei genitori. Credo che mia soglia di dolore sia più bassa. Che le mie aspettative siano più alte. Che il mio livello di risentimento nell’avere a che fare con qualcosa che non ho particolarmente voglia di fare perché non piacevole sia più alto. Nella maggior parte dei casi sono convinto che questo sia dovuto al fatto che per sei ore al giorno ricevo determinati messaggi – “Relax, te lo daremo noi, non devi dare niente in cambio, tutto quello che devi fare è uscire ogni tanto e andare a comprare questo prodotto.” Ma anche gli animali si divertono. I miei cani giocano. E guardarli giocare – c’è una purezza d’intenti e una mancanza di auto-consapevolezza che spero di poter raggiungere quando sperimento il piacere. Ma sia Platone che John Stuart Mill occupano interi libri per parlare dei differenti tipi di piacere. Nella mia esperienza personale, apprezzo spesso le cose veramente artistiche. Ma ci sono anche volte in cui guardo un’enorme quantità di TV, e ho letto probabilmente il settanta per cento dei libri di Stephen King. E gli ho letti principalmente perchè per un po’ voglio scordarmi che il mio nome è David Wallace, che ho i miei limiti, che sono triste perché la mia fidanzata mi ha gridato contro. Credo che la vera arte debba farci confrontare con gli aspetti difficili di noi stessi e del mondo. E uno dei pericoli è che se continuiamo a farci condizionare a confrontarci sempre di meno e a sperimentare sempre più piacere, le ragioni commerciali l’avranno vinta.
W: Quindi la cartuccia di Infinite Jest non ha nessun valore redentivo?
DFW: È una domanda interessante. Ti dispiace? Hai mai letto qualcosa di Larry Niven? Un tipo tosto, uno scrittore di fantascienza dura. Lui parla di wire-head9. Una tecnologia che, magari non nella mia vita ma in quella futura, farà in modo che ci si possa collegare ai terminali del tuo cervello. C’è molto di questo in Infinite Jest, ma gran parte è stato tagliato. Si collegano al tuo cervello e sei capace di avere un sistema in base a cui tu ti possa attaccare ad un muro e stimolare i tuoi centri di piacere. In Niven – che non ho letto prima che il libro fosse pubblicato, sono preoccupato che tutti diranno che l’ho copiato – i wire-head muoiono. Perché non mangiano, non bevono, non fanno niente. Sono come organismi sostenuti. Così, se questa tecnologia fosse disponibile e tu avessi i soldi per comprarla e dire in sostanza addio alla tua vita – lo faresti? Non lo so. E l’aspetto interessante è che sessanta, settant’anni fa l’uomo medio della strada avrebbe detto esattamente: “Non lo so.” Mi piacerebbe dire no, ma la prima volta in cui mi sento realmente depresso o che la vita mi sembra una merda – eccoti l’attaccatina.
W: Quindi “Non lo so” è il punto della discussione.
DFW: Cosa suggeriresti?
W: Riguardo te?
DFW: No, riguardo te stesso.
W: Direi probabilmente di no.
DFW: Ho come l’impressioni che tu ami troppo leggere, e se lo fai… Ci sono cose come il piacere dell’apprendimento e le gioie del conoscere altre persone, e c’è anche tutta la roba religiosa e tutto il resto. Ma tutto questo sta remando contro ciò che penso sia la vera differenza tra la mia e la tua generazione, quella dei nostri nonni – un’immensa, lancinante, disperata brame di piacere, e un’autentica sensazione di deprivazione quando non lo stiamo provando. Non penso che io lo farei, ma penso anche che quello che mi preoccuperei di fare sarebbe avere un sacco di amici intorno che mi impediscano di farlo.
NOTE
(1) Montel Brian Anthony Williams, conduttore televisivo americano noto per il suo The Montel William Show, simile a molti “tabloid talk show” al pari del celebre The Oprah Winfrey Show, tutt’oggi in onda. Questo tipo di talk show è chiamato anche “freak show” ed è l’esempio di “trash TV” per antonomasia. Non siamo ancora alle botte, ma in sostanza il programma sfrutta le confessioni pubbliche di gente disastrata su temi torbidi come l’infedeltà coniugale, l’aborto minorile, la scomparsa di un figlio, un omicidio passionale e così via. In Italia abbiamo C’é posta per te, Porta a porta, Verdetto finale, Buona Domenica, Carramba che sorpresa e tanti altri.
(2) Richard Linklater, regista di, tra gli altri (e a questi film pare rivolgersi Wallace per ragioni cronologiche), La vita è un sogno, Prima dell’alba, SubUrbia.
(3) Personaggi di V. di Thomas Pynchon.
(4) Situation comedy americana anni ’60 sulle avventure di una famiglia di bifolchi trapiantati a Beverly Hills.
(5) Personaggi di L’Arcobaleno della gravità.
(6) In inglese “Brocken spectre”, spettro rotto, chiamato anche “mountain spectre”. Si tratta di un fenomeno ottico per cui l’enorme ombra di un osservatore viene proiettata su una superficie di nuvole grazie alla dilatazione del sole, mentre la luce riflessa dalle goccioline di umidità crea intorno all’ombra un arcobaleno circolare. Un fenomeno che può apparire solo tre le cime nebbiose delle montagne.
(7) Howard Johnson, fondatore della Howard Johnson’s, catena di hotel e ristornati negli Stati Uniti e in Canada.
(8) Tortino snack che molti negli USA amano rifinire a casa friggendolo nel burro. Esiste anche una leggenda urbana per la quale un Twinkie può durare fino a cent’anni, tanti sono gli additive chimici al suo interno.
(9) Letteralmente, “teste collegate”.
Traduzione dall’inglese di Jacopo Cozzi
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