Scrivere di questo libro necessita innanzitutto di una premessa fondamentale.
L’amico ritrovato non può considerarsi un romanzo, e nemmeno ne ha la pretesa. L’autore stesso, Fred Uhlman, si dichiarò consapevole che il suo scritto non sarebbe stato annoverato tra le grandi opere, e forse nemmeno ne aveva intenzione.
Dicendo “non può definirsi romanzo”, mi riferisco in primo luogo alla struttura narrativa del libro; non c’è un tessuto tramativo che si scioglie, non c’è la “complessità” e l’intensità linguistica e contenutistica tipica del romanzo d’autore.
Questo, però, nulla toglie allo spessore del libro. L’intenzione di Uhlman non era quella che forse si aspettava, e ci si aspetta ancora, quando si sa che qui si scrive del rapporto tra due adolescenti, uno ebreo e l’altro svevo, nella Germania del periodo nazista. Ci si aspetta il racconto del dramma, lo sfondo storico, l’insinuarsi chirurgico nella descrizione di un’epoca di differenze: le stesse incarnate dai due ragazzi.
Ma qui la protagonista non è la Storia, né la descrizione dettagliata delle scissioni e delle lacerazioni alle quali pure i due ragazzi dovettero assistere. L’ Amico ritrovato è il racconto autobiografico di un’amicizia persa e ritrovata, a dispetto del Tempo e degli Eventi, un’amicizia descritta col candore e la schiettezza propria di un adolescente, quasi che l’autore si fosse lasciato, in questo, trasportare dalla sua penna, senza nessuna pretesa.
E proprio la mancanza di ogni pretesa ha reso l’opera un capolavoro.
Qualcuno lo definisce racconto: io ritengo questo vocabolo troppo restrittivo. Per me questo scritto si colloca in uno spazio a sé stante: non si può e non si riesce a classificarlo, giacché, nel momento in cui lo si fa, sfugge sempre qualcosa.
Dirlo romanzo significherebbe screditarne la natura essenziale; dirlo racconto comporterebbe uno svilimento del suo valore e della sua umile grandiosità.
Io lo dico un grande esempio, e spiego il perché.
Essenzialmente, l’autore ci riporta all’epoca della sua prima adolescenza, e al suo incontro con quello che sarebbe diventato il suo amico inseparabile. Tutto ciò attraverso le figure dei protagonisti: un ragazzino tedesco di origine ebraica, figlio di un noto medico della città, Hans, e del compagno di scuola e d’avventure (più che altro fatte di pensieri e sogni), un ragazzino di origine sveva, Konradin, appartenente all’alta aristocrazia tedesca, discendente degli Hohenfels, famiglia nota a Stoccarda per il suo ruolo glorioso nella storia germanica.
I due, nonostante le formali differenze, condividono, in poche “pagine”, sentimenti e dolori intensi. Uhlman ne accenna soltanto, ma riesce a colorarli in modo tale da renderli significativi e coinvolgenti. Ci mostra il percorso di maturazione intellettuale ed emotiva di due ragazzi che, apparentemente estranei al mondo nella solidità della loro amicizia, ben presto si accorgono di dovere fare i conti con la “realtà” , quella esterna a loro, quella che tutti chiamano “storia”. E sarà questa storia, nella Germania degli anni trenta, a separarli.
Niente drammi, niente episodi complessi. Anche qui Uhlman accenna soltanto al razzismo, al distacco non voluto tra i due ragazzi. Ben presto si accorgono di dover tenere conto delle differenze che la società attribuisce loro, fin quando, all’intensificarsi degli eventi, Hans non si separa, apparentemente per sempre, da quell’amico e da quella Germania che tanto amava, e vola in America, dove resta per trent’anni. Da notare che, in questo ultimo viaggio, Uhlman riporta più i particolari paesaggistici che storici, a rafforzare quanto detto, e cioè che si tratta di un racconto intimistico e non storico.
Dunque, la Storia sembra avere vinto. E questo lo si legge anche dall’amara lettera di addio di Konradin, che accenna addirittura ad una ammirazione per Hitler.
E invece no: dopo trent’anni, Hans riceve una comunicazione scritta che lo invita, in quanto tedesco, a servire la Patria e sostenere le spese per i caduti in guerra. Apparentemente disgustato, Hans non può alla fine fare a meno di scorrere la lettera.
Man mano che scopre il destino di molti dei suoi compagni, beffati dalla Storia, di cui si credevano vincitori ma che proprio da essa sono stati ridicolizzati, i suoi occhi si fermano al nome di Konradin. Con la grandezza che solo pochi autori come Uhlman hanno, in una sola, piccola, apparentemente insignificante frase, l’autore ci fa capire che l’amicizia, quella vera, sopravvive al Tempo e alla Storia:
“Hohenfels, Konradin. Impiccato per aver partecipato a un complotto contro Hitler.”
Dunque due amici, travolti dal vortice doloroso degli eventi, che hanno saputo, attraverso una maturazione emotiva e intensa, ri-trovarsi nelle scelte di vita che hanno assunto, e che restituiscono al loro legame quella dignità e quello splendore che sembrava avessero perso.
Tutto attraverso poche righe.
Allora, perché questo libro è “un esempio”? Perché in questo piccolo opuscolo è racchiuso un mondo, quello interiore, che nessuna struttura narrativa potrà mai racchiudere, e di cui solo il termine “esempio” scandisce e sottolinea la perenne lezione di vita che scaturisce ogni qual volta si ritorna ad esso anche solo con la mente.
Carla di Nuzzo – 2009 (distribuito con Creative Commons)
Vi segnaliamo anche il film omonimo del 1989, diretto da Jerry Schatzberg (scheda su Yahoo Movies)