Che il capitalismo, a un certo punto del suo sviluppo, non potesse evitare di affrontare la questione morale lo aveva perfettamente intuito John Maynard Keynes, il grande economista inglese sostenitore dell’ intervento dello Stato nella sfera dell’ economia. Nel 1924 a Oxford, egli tenne, davanti a un pubblico disorientato dalle sue tesi, la conferenza sulla “fine del laissez-faire”. Il libro, con lo stesso titolo, avrebbe visto la luce nel 1926. Spicca tra i suoi lavori il saggio intitolato Sono un liberale? dal quale è possibile ricavare una prima, seria critica alla partitocrazia. Dal Settecento in poi, uno dei capisaldi teorici dell’ economia di mercato era stata la suggestiva formula del “laissez-faire”, nata secondo alcuni da uno scambio di battute fra il mercante Legendre e Colbert. “Che cosa bisogna fare per aiutarvi” chiede il ministro. “Lasciateci fare”, risponde Legendre. A Keynes, questa formula appare pericolosa per la società, in quanto riassume ai suoi occhi un’ esperienza storica ormai conclusa: quella del capitalismo individualista. Keynes che ha letto L’ origine della specie di Darwin, esclude che il principio selettivo, efficace in natura, possa trapiantarsi nel corpo della società: “Molti dei maggiori mali economici del nostro tempo”, egli scrive, “sono frutto del rischio, dell’ incertezza e dell’ ignoranza”. Se si creano grandi diseguaglianze di ricchezza ciò accade. Naturalmente Keynes non vuole l’ abbandono del capitalismo. La vecchia favola di Mandeville Si tratta a suo parere di organizzarlo meglio, ricorrendo a un’ etica sociale che ne smussi le asperità e i rischi (si pensi all’ esperienza del Welfare State) e limiti l’ inclinazione alla rapacità, insita appunto nel “laissez- faire”. A parte la riedizione di Keynes, molta produzione editoriale recente è orientata ad approfondire il rapporto fra etica e economia. Fatto abbastanza singolare dal momento che si verifica proprio quando il capitalismo ha vinto su tutta la linea la sua lunga contesa con il marxismo e l’ economia di mercato s’ è dimostrata enormemente più efficiente di qualsiasi sistema “pianificato”. Ma a quale etica allora rivolgersi? E’ tramontata quell’ ispirazione “religiosa” – di origine calvinista – che, a partire da Max Weber, vedeva nella figura dell’ imprenditore qualcosa di più che un semplice accumulatore di profitti. Ma si può dire che valga ancora la vecchia favola di Mandeville che Sergio Ricossa – autore di Cento trame di classici dell’ economia – ritiene più attuale che mai e secondo la quale i vizi privati si trasformano in pubbliche virtù? “L’ altruismo di San Martino che incontra il soldato romano infreddolito e gli dona metà del suo mantello è impraticabile nelle grandi società moderne. Occorre”, sostiene Ricossa, “un’ industria tessile che produca mantelli in milioni di esemplari e a basso prezzo affinché anche i poveri possano comprarli”. Allora, professor Ricossa, che cosa è l’ etica in campo economico? “Un sistema mercantile che funzioni”. E’ una visione classica: il sistema economico cioè il mercato è fornito di meccanismi che spontaneamente lo regolano. Perché funzioni e perché si realizzi il “bene comune” occorre intervenire il meno possibile. “Questa impostazione che non fa una piega se vogliamo spiegarci il successo dell’ attuale modello di sviluppo”, – replica Alberto Ronchey che ai limiti del capitalismo ha dedicato un volume – “è insufficiente di fronte alla pressione devastante esercitata dalla questione demografica ed ecologica. Diciotto milioni di ettari di foresta che ogni anno spariscono sono qualcosa che ci porterà al disastro”. In fondo ragionava come Karl Marx. E allora che fare? Intanto sembra che ci siamo accorti a nostre spese che con il tramonto delle grandi ideologie alternative e la crisi dei mercati finanziari, l’ economia capitalistica va ristudiata a fondo abbandonando, o comunque limitando, il principio utilitaristico. “Lo stesso Keynes”, osserva sorprendentemente Ricossa, “ragionava in fondo come Karl Marx e John Stuart Mill. Egli non riteneva che l’ economia fosse un fenomeno permanente della razza umana. Si augurò che nel lungo periodo il capitalismo concorrenziale fosse eliminato. Desiderava una società tranquilla in cui tutti oltre al necessario avessero un po’ di superfluo, senza tuttavia ambire a guadagnare o a lavorare e a consumare sempre di più. Era un discorso in contrasto con la natura espansionistica del capitalismo”. Non è affatto escluso che Keynes – definito da qualcuno, con una certa dose di fantasia “un aristocratico leninista” – avesse visto giusto. “Si verifica un fatto curioso”, confessa Ronchey. “Ieri si credeva ciecamente alla dittatura del proletariato. Oggi, ironia della sorte, ciò che era una fede è diventata una prassi. Ci troviamo di fronte a una dittatura del proletariato consumista”. Per l’ autore di I limiti del capitalismo, insomma, l’ illimitata crescita dei consumi, quella che il filosofo francese Jean Baudrillard ha chiamato “economia libidinale”, ci sta spingendo verso il baratro: troppe automobili, troppi televisori, troppo inquinamento. “Un trionfalismo da addetti ai lavori riduce il successo dell’economia alla misurazione del prodotto nazionale lordo; un parametro che oggi non significa più nulla”. Una volta tanto toccherà all’Occidente. Per Ronchey l’efficienza di un sistema economico va calcolato sui costi effettivi: ad esempio quanto pesa sul bilancio pubblico in termini di infrastrutture, di inquinamento, un’ industria come quella automobilistica. Allora occorre scendere dal treno industriale perché l’ etica ritrovi la sua funzione? “L’etica può dare una mano a non arrendersi alle aberrazioni industriali”. Un esempio interessante, e in fondo insospettabile, viene proprio dal cuore del capitalismo, il Giappone che ha cercato con successo di dare risposte positive ai problemi posti dall’ ambiente: riduzione drastica del consumo energetico, sostituzione della chimica dura con le biotecnologie e della metallurgia pesante con l’ elettronica. Una volta tanto, toccherà all’ Occidente copiare l’ organizzazione economica avviata sull’ altra sponda del Pacifico. Occorre fare in fretta, dice Ronchey. Altrimenti il capitalismo muore. Magari come ironizzava Schumpeter, per una malattia psicosomatica.
[fonte: Antonio Gnoli – Repubblica.it]