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Tutto esaurito, ogni sera per otto settimane, il Fourth Theater, sulla quarta strada nell’East Village di New York. In scena c’è Najla Said, figlia del grande scrittore palestinese Edward, con Palestine, il monologo scritto da lei. Cento minuti di vita vissuta in cui la giovane attrice palestinese racconta la sua infanzia a New York e i due eventi che più hanno influito sulla sua crescita: le bombe a Beirut dove, a nove anni, era andata a trovare la famiglia di sua madre, e la spedizione del ‘92 con i genitori e il fratello Wadie nella striscia di Gaza, la terra del padre.

«Da ragazzina non volevo avere niente a che fare con la politica ma quando mi sono trovata lì ho capito che avevo il dovere di raccontare, di fare sapere quello che avevo visto con i miei occhi», ricorda come se fosse tornata ieri da quel viaggio all’inferno. Da sola sul palcoscenico, con i riflettori puntati su di lei, Najla rivive ogni sera, in un crescendo di emozioni, l’infanzia in una famiglia di sinistra e in una scuola cattolica popolata di bambine con capelli biondi e occhi azzurri, mentre lei, araba e bruna, si sente diversa e tace. «Per farmi uscire dal silenzio, i miei genitori mi spedirono a scuola di recitazione», racconta. Aveva sei anni e aveva imboccato il suo cammino di attrice. Trovarsi un padre come Edward Said, professore di Letterature comparate alla Columbia per quarant’anni, autore di un libro come Orientalismo, che dal ‘78 in poi ha cambiato il modo dell’Occidente di guardare all’Oriente, per la ragazzina cresciuta nei quartieri alti di New York non è stato facile. Figlia di genitori impegnati e appassionati, Najla aveva mantenuto le distanze dalle loro opinioni, da quel loro modo di condividere la storia della propria gente e non solo. Invece adesso fa rivivere e rivive ogni sera le montagne russe delle sue emozioni con la consapevolezza di un’adulta ma l’entusiasmo di un bambino che soffre, piange, ride, mette in ridicolo le passioni di padre e madre: senza rabbia, ma con tenerezza. Dopo New York Palestine andrà in tournée nelle grandi città degli Stati Uniti, Washington, Los Angeles, San Francisco, Chicago, prima di approdare in Europa, a Londra, e poi chissà. Najla è già stata nei campus storici di Berkeley, Yale, Brown, dove ha coinvolto nel suo viaggio migliaia di studenti di ogni parte del mondo. La casa editrice Riverhead, un ramo di Penguin Books, le ha già chiesto di scrivere il testo autobiografico ispirato a Palestine e lei si è messa al lavoro.

L’idea le era venuta nel 2004 quando, con l’amica regista israeliana Danae Elon, era stata invitata da una sua allieva (all’epoca dava ripetizioni agli studenti di liceo) a recitare per la Trevor Day School. In quell’occasione per 15 minuti raccontò a un pubblico fatto per lo più di ragazzini ebrei come vivevano i palestinesi nella striscia di Gaza. Da allora il suo viaggio è continuato fino ad arrivare off Broadway. «Tanti sionisti vengono a sentirmi e alla fina battono le mani, capiscono e condividono», racconta stupita Najla. Invece non c’è da stupirsi perché mai, nemmeno in una sola parola, si sentono risentimento o rabbia, nemmeno per un secondo si vede un dito puntato contro qualcuno. Certo, lo sottolinea anche lei: «Ricordatevi, questo è un racconto fatto con gli occhi di una ragazzina». Qualcuno la accusa di leggerezza, di parlare solo di se stessa, ma proprio questa è la forza della rappresentazione. Riesce a prendersi in giro, a criticare la sua passione per la moda e i posti alla moda, la sua anoressia, ma alla fine quel che emerge è la compassione sia per quella bambina che si sentiva e si sente diversa, sia per quella gente vittima di altra gente. Uscendo dal piccolo teatro di Fourth street si ha la sensazione di non vivere in un mondo di vittime e carnefici, ma di galleggiare nell’oceano su una stessa barca. Il dualismo si dissolve nelle parole frivole e spumeggianti della Said, raggiunge il fondo quando ripercorre la morte del padre di leucemia, quando affonda i suoi sandali di camoscio nel fango di Gaza, quando vuole andare nelle discoteche di Beirut ed è costretta a calarsi nel rifugi. Le viene da urlare «Basta!», ma basta a se stessa, basta a noi, basta a tutti. Perché siamo uno e solo con questa consapevolezza possiamo continuare a camminare.

Nel 2001 tramite Yahoo aveva creato un gruppo di teatro arabo. «L’abbiamo chiamato Nibras, che in arabo significa “lanterna”, non solo perché illumina, ma perché devi portare avanti la luce con le tue mani», racconta Najla. Il primo spettacolo, messo in scena subito prima dell’attacco al World Trade Center, s’intitolava Sajjil, «Registrazione», e difatti consisteva nel registrare il modo in cui reagiva la gente nelle strade, nelle metropolitane, nei caffé, nelle scuole, alla parola «arabo». «Per gli occidentali la prima reazione era caldo, deserto, cammello poi, dopo l’Undici settembre, diventò inferno, bombe, terrorismo. Per gli arabi invece era amore, amicizia, tavola, cibo, famiglia». La Said non lo confessa, ma ieri come oggi la sua ambizione titanica sarebbe quella di riuscire a essere aperta verso chi è diverso da sé.  «Non mi aspetto di cambiare il mondo – dice – ma di aprire il cuore verso l’altro, non solo verso i palestinesi».

[fonte: La Stampa]

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