L’inqualificabile Flaiano continua a sfuggire a ogni genere di definizione. Protagonista della dolce vita romana del dopoguerra, grande romanziere (anche se, in tutta la sua vita, ha scritto un solo romanzo: Tempo di uccidere), impareggiabile sceneggiatore (il favorito di Fellini) e soprattutto intellettuale di primissimo piano: Flaiano era tutto questo e molto altro ancora. Ma cosa c’è di tanto prezioso nel suo lavoro?
È meglio chiarire subito che Flaiano resterà per sempre un enigma della cultura italiana. Leggendo e rileggendo i suoi scritti (quasi tutti frammenti, opere incompiute, progetti faraonici lasciati in sospeso, freddure, elzeviri) se ne ricavano sempre impressioni nuove, spunti, idee e la sensazione costante di non aver afferrato completamente il suo messaggio. Qualcuno considera Ennio Flaiano un maestro dell’incompiuto, l’unico ad essere arrivato così in alto in letteratura scrivendo così poco e in maniera così disarticolata.
Qualche indizio per tentare di risolvere il caso Flaiano ci arriva dalla sua biografia così come lui stesso l’ha raccontata:
Sono nato a Pescara in un 1910 così lontano e pulito che mi sembra di un altro mondo. Mio padre commerciante, io l’ultimo dei sette figli della sua seconda moglie, Francesca, una donna angelica che le vicende familiari mi fecero conoscere troppo poco e tardi. A cinque anni fui mandato nelle Marche, a Camerino, presso una famiglia amica, che si sarebbe presa cura di me. Vi restai due anni. A sette anni sapevo fare un telegramma. Ho fatto poi anni di pensionato e di collegio in altre città, Fermo, Chieti, Senigallia, persino Brescia, nel 1922. Il 27 ottobre dello stesso anno partivo per Roma, collegiale, in un treno pieno di fascisti che “facevano la Marcia”. Io avevo dodici anni ed ero socialista.
A Roma divenni un pessimo studente e arrivai a stento alla facoltà di architettura, senza terminarla, preso dal servizio militare e dalle guerre alle quali fui chiamato a partecipare, senza colpo ferire. Tuttavia, Roma è la mia vera città. Talvolta posso odiarla, soprattutto da quando è diventata l’enorme garage del ceto più medio d’Italia. Ma Roma è inconoscibile, si rivela col tempo e non del tutto. Ha una estrema riserva di mistero e ancora qualche oasi. A Roma, da giovane, ho trascorso anni in giro, la notte, col poeta Cardarelli e Guglielmo Santangelo, due maestri di indignazione e di vita. A Roma ho conosciuto i primi scrittori, i primi artisti, i giovani che facevano la fame le donne che ci facevano compagnia. Ho cominciato a scrivere molto tardi, satire e note critiche, pensare alla narrativa. Nell’inverno del ‘46, trovandomi solo a Milano, ho scritto il mio primo e unico romanzo. Era la “mia Africa”, adattata ai miei panni, un apologo: Tempo di uccidere. Il libro vinse un premio, la critica lo accolse tiepidamente. Un critico scrisse che mi aspettava alla seconda prova. Sta ancora aspettando. Un altro che ero troppo “leggibile”. La vecchia Italia dei capitoletti e della “pagina” mi respingeva. Nel ‘49 Pannunzio mi chiamò redattore al Mondo, vi tenni una rubrica che poi raccolsi in volume, Diario notturno, assieme ad altri scritti. Il cinema mi offrì in quegli anni una vita economica meno aspra. Ho collaborato con Fellini ad otto dei suoi film, ho scritto altre storie, per altri registi. Infine, tutto tempo perso, idee e pagine buttate al vento. Nel ‘59 un altro volume di racconti, e poi una commedia, Un marziano a Roma, la sola cosa che mi piace e che andò male.
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o alla sfortunata figlia Lelè (affetta da una gravissima forma di encefalopatia) alla quale Flaiano dedicò bellissime pagine ne La Valiga delle Indie. Il rapporto di Flaiano con la famiglia è sempre stato combattuto e lui stesso lo stigmatizzava così in uno dei suoi più celebri aforismi: «Oggi ho lasciato la mia famiglia perché ero stanco di sentirmi solo».
Del resto Flaiano provava sentimenti contraddittori per quasi tutto ciò che faceva a cominciare dallo scrivere fino al fare cinema. Tentò, senza riuscirci, di dirigere personalmente la trasposizione cinematografica di Melampus. Era riuscito a mobilitare un giro impressionante di attori amici candidatisi per il film (Mastroianni, Gassman, Manfredi, Danaway, Deneuve e molti altri), ma il produttore Carlo Ponti – che non lo riteneva all’altezza – lo ostacolò in ogni modo costringendolo per sfinimento ad abbandonare il progetto (Flaiano arrivò a confessare che «Ponti e il Melampo mi hanno condotto alla tomba»).
Va detto poi che il lavoro, anche e soprattutto quello intellettuale, appare nell’opera di Flaiano come un contorno spesso ingombrante e fastidioso alla vita. Per questo Flaiano fu spesso contestato dagli intellettuali del dopoguerra: si rifiutava di abbracciare qualsiasi ideologia, preferiva restare aggrappato alla sua visione disillusa (qualcuno dirà cinica) dell’esistenza. E Roma ha contribuito enormemente a formare questo suo atteggiamento.
La città, negli anni in cui Flaiano frequentava i caffè di via Veneto, viveva il boom economico, si scopriva benestante, sempre in festa. Perdeva giorno dopo giorno quella semplicità e quella moralità schietta imposte dai rigori della guerra. Nascevano gli scandali come li conosciamo noi oggi – prima, fatta eccezione per le maldicenze di borgata, praticamente non esistevano in Italia –, il lusso aveva già cominciato la sua silenziosa opera di corruzione. Insomma la città perdeva la propria innocenza e Flaiano ne era testimone privilegiato. Descriverà questo fenomeno, assieme a Fellini, in maniera magistrale con la sceneggiatura de La Dolce Vita. A tale proposito è impossibile non citare la scena finale di questo film: l’aspirante scrittore – Marcello Mastroianni –, sfatto dopo l’ennesima orgia, rinuncia alle proprie ambizioni artistiche e si ritrova sul lungomare davanti ad un orrendo mostro marino in decomposizione e a una ragazzina dalla faccia pulita.
La ragazzina gli parla, ma il rumore della risacca copre ogni cosa o forse è semplicemente lui che non è più in grado di sentire.