In principio Scipione, cardinale, nipote di papa Paolo V Borghese, a fare della sua nuova Villa a Porta Pinciana uno dei luoghi più importanti e preziosi del tempo, grazie alle sue mirabolanti collezioni di arte antica e contemporanea. Erano i primi decenni del Seicento e quelle raccolte divennero subito punto di riferimento per il collezionismo artistico europeo. Il nucleo principale si venne costituendo dall’unione di due collezioni, una acquistata nel 1607 da Lelio Cleoli e collocata nel palazzo eretto da Sangallo in via Giulia; l’altro, acquistato due anni dopo, era stata formata dallo scultore Giovanni Battista Della Porta. A questi due nuclei si aggiunsero presto, grazie all’attività del potente prelato, altre opere di straordinaria importanza, da altre collezioni o ritrovamenti fortuiti. Le sculture, inizialmente divise tra le proprietà di Scipione in Campo Marzio e sul Quirinale, confluirono poi, quasi per intero, nella nuova e imponente villa suburbana concepita dal cardinale appositamente per le esposizioni delle sue esposizioni di sculure e di pitture.
Alla morte di Scipione, nel 1633, la Villa e la sua collezione erano già perfettamente delineate, in una straordinaria sintesi tra contenitore e contenuto. Seguirà un periodo di relativo abbandono fino a quando nel 1770, Maracantonio IV Borghese, seguendo il gusto dominante dell’epoca, si fece promotore di un rinnovamento della Villa in chiave neoclassica. I maggiori capolavori della celebre collezione vennero disposti secondo un preciso criterio espositivo, al centro di ogni sala, in armonia con il tema decorativo dell’ambiente. Decine e decine di statue, eteree e perfette, andarono ad occupare il centro delle sale confermando il segno della gloria dei Borghese e dello splendore della Villa, negli anni di Marcantonio come ai tempi di Scipione.
Poi, ai primi dell’Ottocento, l’intervento di Napoleone Bonaparte scrisse una pagina nera nella storia della Galleria e, in generale, del nostro patrimonio artistico. L’imperatore voleva con ogni mezzo ammantarsi dei simboli nel suo nuovo potere e intendeva replicare le conquiste militari anche in campo culturale. Dopo aver fatto proprio il mondo egizio, per legittimare il suo potere imperiale decise di mettere le mani pure sul mondo classico, attingendo a piene mani tra i tesori custoditi nella villa del cognato Camillo Borghese, a Roma. Ecco che 695 pezzi tra statue, vasi e rilievi furono regolarmente venduti alla Francia ad una cifra astronomica e presero la volta di Parigi (non via mare a causa dei timori di intralcio causati dalla flotta inglese, bensì via terra, attraverso le Alpi, tra il 1808 e il 1811), destinati al costituendo Museo del Louvre. Incaricato da Napoleone di stimare il valore della collezione Borghese in vista del suo acquisto fu Ennio Quirino Visconti, antiquario di fama. La scelta doveva contribuire a rendere gloria all’imperatore che si presentava come erede della romanità. Era nelle intenzioni del Visconti scartare le opere “moderne” nella convinzione che solo l’arte antica potesse formare il “vero gusto”. E per fortuna, altrimenti sarebbero partite a Parigi anche i capolavori di Gian Lorenzo Bernini.
Oggi, dopo due secoli, una minima parte di quella meraviglia per la prima volta esce dalle sale del museo francese e ritorna in quelle della Galleria Borghese, tra noi. Merito della mostra “I Borghese e l’Antico”, felicissimo frutto della collaborazione tra i due musei. Uno sforzo gigantesco, soprattutto da parte del Louvre che ha spostato una quantità incredibile di opere che, molto probabilmente, dopo questa mostra, non si muoveranno più. L’esposizione, a cura di Anna Coliva, Marina Minozzi, Jean Luc Martinez e Marie Lou Fabrega Dubert, è altamente filologica e tenta, attraverso accuratissime documentazioni studiate per anni, di ricollocare le opere nei loro ambienti originari. La risistemazione si dipana secondo due diverse prospettive; da un lato, l’allestimento del piano terra rispecchia quello tardo settecentesco dell’epoca di Marcantonio, mentre dall’altro, quella al primo piano si rifà alla sistemazione secentesca delle origini così come fu concepita dal cardinal Scipione. Così, ad esempio, è stato possibile ricreare la sala V ripopolandola di opere come l’Ermafrodito dormiente, restaurato dal giovanissimo Bernini che vi aggiunse un iperrealistico materasso di pietra, l’Ermafrodito stante, che si teneva in parte celato per motivi di decenza, e il gruppo con Castore e Polluce. Inevitabilmente, però, il ritorno a casa delle altre statue “parigine” ha causato lo spostamento di quelle “romane”. Il percorso è lungo e via via entusiasmante, ma anche difficile da memorizzare e solo appena riconoscibile dai basamenti color verde con profili chiari su cui sono esibite le opere del Louvre. L’esercizio affascinante e complesso di riproporre la disposizione originaria, oggi, è quasi impossibile, ma un aiuto è offerto dall’inserimento in varie sale delle riproduzioni degli acquerelli di Charles Percier che mostrano la collocazione dei reperti al ‘700, rendendo così possibile un confronto con la sistemazione attuale della Galleria.
La mostra è, dunque, un motivo in più per visitare la sempre splendida Galleria Borghese, e, con l’occasione, rendere omaggio a opere importantissime come le madonne di Raffaello o l’Amor Sacro e Amore Profano di Tiziano. In più, fino al 9 aprile, la mostra aiuta a capire veramente in cosa consistette quella vendita clamorosa: una vendita, seppur sconveniente, perfettamente legale tanto che alla caduta di Napoleone le opere non sono state restituite come invece avvenne per una parte dei bottini saccheggiati dai musei e chiese di tutta Europa; una vendita definita amaramente “incancellabile vergogna” da Antonio Canova, presente nella stessa Galleria con la sua insuperata Paolina.