Milano.
Lo abbiamo trovato in mezzo ai suoi studenti il professor Caroli. Un pomeriggio dei primi giorni di Settembre: sessione autunnale degli esami di storia dell’arte. Il professore ci riconosce: «Lei è stato mio studente, vero?». E in effetti così è stato. «Come sta? Cosa fa di bello ora? Mi dica, posso esserle utile?». Il Professor Caroli è sempre pronto a parlare d’arte: «Sono qui per una breve intervista sul ruolo dell’arte oggi». Al professor Caroli si illuminano gli occhi: la sua passione, il suo amore per l’arte è quasi incontrollabile. Presto detto, seduti a fianco della cattedra come ai tempi degli esami. Ma – strana sensazione – per questa volta i ruoli si sono invertiti: tocca a me fare le domande.
Un tema a lei caro: l’arte ovviamente. Il primo spunto riguarda un tema affrontato molto spesso oggi sia in ambito critico che nell’ambito della produzione artistica: l’introspezione, i moti dell’animo. Perché il nostro tempo ricerca l’introspezione nell’arte? È una prerogativa della nostra epoca?
«Credo di aver dimostrato che non è affatto un tema specifico della nostra epoca ma è il cuore stesso della cultura occidentale, il suo asse portante. La nostra epoca se ne è resa conto e sta cercando le radici di questo percorso secolare: del resto è ciò che io ho tentato di dimostrare con il libro Storia della fisionomica e con la mostra L’anima e il volto. Va detto che proprio questa è la chiave dell’arte occidentale; non è, come invece ho cercato di dimostrare nel libro Arte d’Oriente Arte d’Occidente, la chiave delle altre grandi tradizioni artistiche di questo pianeta. Ma poiché oggi queste tradizioni tendono ormai a confrontarsi e confondersi, l’occidente si rende consapevole di queste sue radici riscoprendone il valore».
Pensiamo per esempio alla mostra organizzata nel 2005 a Parigi su La Melanconia: il tema dell’inquietudine, della malinconia. E’ questo dunque il compito dell’arte del nostro tempo: scardinare alcuni valori solitamente dati per certi?
«No, non è una prerogativa dell’arte contemporanea. Il percorso della malinconia nella storia dell’arte europea l’avevo già segnalato nella Storia della fisionomica e nell’Anima e il volto: è uno degli assi che hanno segnato la ricerca introspettiva dell’uomo occidentale. Naturalmente quanto più ci si avvicina ai nostri tempi, tanto più l’impressione è che ci sia una rincorsa alla ricerca di senso. In qualche modo, fino al settecento, il rapporto con la religione ha coperto questa ricerca. Le cose si sono fatte più complicate dopo il romanticismo; a quell’epoca il pensiero occidentale era comunque ancora guidato da valori forti. Sembrerebbe che quanto più ci si avvicini ai nostri tempi, tanto più questi valori tendano a sgretolarsi, a incrinarsi, o comunque ad essere messi in discussione e ciò crea appunto la costante, e quasi drammatica, ricerca di senso della contemporaneità. Ma questi sono interrogativi che oggi investono tutto il pianeta. Il mondo occidentale in primo luogo, perché è stato quello che ha più intaccato il sistema delle religioni, che è pur sempre un sistema che garantisce senso, è una garanzia alla proprie spalle».
Quindi il compito dell’arte oggi è tutto inscrivibile in questa ricerca di senso?
«Certo. Il compito dell’arte è quello di ricercare il senso e una possibile verità. Senza pretendere che possa affrontare verità metafisiche, ma quantomeno che possa rispondere ai quesiti eterni dell’uomo: chi sono, da dove vengo e dove vado. L’uomo si trova collocato in una realtà complessa: l’universo fisico è infinito, la vita della natura, degli esseri nella natura è infinita, la stessa vita dell’uomo è a sua volta infinita: un’esperienza fatta di attimi, sensazioni, sentimenti. L’arte ha il compito di rispondere ai quesiti primari dell’uomo nell’universo».
Sempre nel 2005 a Parigi – dopo New York – é stata allestita un’importante mostra su Dada: un occasione per riflettere sul concetto di “avanguardia”. Perché da vent’anni non si parla più di “avanguardia” – un valore considerato fondamentale per decenni – ma di “mercato” dell’arte?
«Beh, questa è una domanda molto complicata, che richiede un discorso molto lungo. Semplificando diciamo che è accaduto un momento nel quale la tecnologia ha scavalcato l’avanguardia. Una volta il meccanismo era semplice: esistevano dei valori costituiti e qualcuno si metteva all’avanguardia tentando di costituirne di nuovi. Proprio da una ventina d’anni a questa parte è parso che il fronte della tecnologia (cioè dei nuovi media, delle nuove immagini: la televisione il cinema, il computer per intenderci) siano diventate esse stesse una nuova forma di avanguardia. Sono esse che si pongono in avanti rispetto ai valori costituiti, rispetto alla rincorsa continua delle sperimentazioni. Questo meccanismo è di per sé in continua evoluzione, e quindi in continua avanguardia: è difficilissimo contrapporvicisi. Di fronte a questo probabile equivoco, oggi chi fa avanguardia, cioè chi cerca nuovi valori, paradossalmente lo fa in solitudine, proprio perché il fronte avanzato è già quello della tecnologia. È questa “avanguardia della tecnologia” che ha impedito che continuasse il meccanismo della creatività di avanguardia. Bisogna aggiungere poi che il valore dell'”avanguardia” è tipico del concetto di modernità. Nel momento in cui, come si dice, si è entrati di diritto nella “post-modernità” questo valore è venuto inevitabilmente meno. Siamo intenzionati a fare dell’avanguardia? Avanguardia rispetto a che cosa? Se si riflette un attimo ci si rende conto che arriva di tutto da tutte le parti; è davvero difficile anteporre qualcosa a qualcos’altro così come faceva l’avanguardia».
A proposito della modernità: nella tradizione del moderno (diciamo per semplificare dal ‘900 al ‘960), esisteva una forte coincidenza arte-vita (pensiamo al libro di Mario De Micheli Le Avanguardie artistiche del ‘900). In questa contesto l’opera coincideva spesso con la vita dell’artista, nasceva dalla sua esperienza personale. L’attuale paradigma del “mercato dell’arte” tende a creare “professionismo”. Oggi si è dunque artista solo in quanto “professionista dell’arte”?
«Bisogna stare attenti a non fare confusione. Questa è sociologia. Dobbiamo sempre avere le idee chiare: parliamo di sociologia o parliamo di arte? Questi sono meccanismi sociologici che hanno le loro logiche merceologiche. Se parliamo di arte, cioè di creatività, ci mettiamo su un altro piano molto più sottile. A questo punto vale davvero la pena di chiedersi cos’è veramente “avanti” rispetto ai valori costituiti. Bisogna sempre avere le idee molto chiare tra meccanismo creativo e meccanismo sociologico/mercantile».
Nel suo libro, Mayerling, amore mio, sembrerebbe che nel personaggio si rappresenti l’ultimo atto di quel rapporto di coincidenza tra arte e vita di cui abbiamo parlato. Cosa spinge il protagonista del libro fino al supremo sacrificio per l’arte: il suicidio come forma suprema di arte? È esistito o esiste un modo estremo di fare arte coincidente con la disintegrazione della propria vita, con la morte?
«Bisogna dire che forse avevo intuito qualcosa al tempo della stesura di quel testo. Il tema del libro è l’uso della morte, la sua spettacolarizzazione. Avevo intuito alcuni meccanismi comunicativi, pubblicitari, merceologici che poi si sono puntualmente verificati. Forse a quell’epoca si è cominciato a comprendere proprio questo: che ci si avviava ad un mondo nel quale si sarebbe utilizzata per far rumore anche la morte. La qualità geniale e allo stesso tempo oscura del mio personaggio (che io non amo e intendo sottolinearlo) è proprio questo: costruisce un meccanismo mediatico per utilizzare la propria morte al fine di promuovere se stesso. Insomma: una suprema forma di pubblicità. È un libro scritto nel ’82 ed è uscito nel ’83, proprio il momento in cui incominciava un consumo “brutale”, il periodo coincidente con la fine delle avanguardie. Non a caso lo scrissi dopo aver fatto avanguardia pesante da ragazzo ai tempi dell’arte povera, ed in quegli anni anche professionalmente con la biennale dell’80 o la mostra alla triennale Nuova Immagine. Senza dimenticare la biennale del ’82 in cui portai Basquiat: ai tempi della biennale dell’80 per esempio Basquiat non era sulla scena europea, per la biennale dell’82 capii che il meccanismo mercantile si era scatenato su quel nome. Forse fu proprio attraverso questo esempio di arte di massa che capii come si era evoluto il nuovo meccanismo del mercato e del consumo che chiamo “brutale” (perché il consumo c’è sempre stato, ma questo era ed è consumo brutale). Fu forse anche dall’esperienza della Biennale del ’82 che maturò l’idea di questo libro, che è appunto il libro del consumo estremo: il consumo della propria morte. Avevo probabilmente intuito che stava arrivando un momento in cui tutto sarebbe stato consumato; e questo meccanismo, antropologicamente parlando, catastrofi a parte, non sembra voler cambiare».
Nel suo ultimo libro Arte d’Oriente Arte d’Occidente predice per il recente futuro una progressiva fusione della arti e delle culture. Ma sarà un predominare della cultura occidentale sulle altre, almeno artisticamente, o prevede una fusione tra le culture in dosi più o meno egualitarie?
«Tutt’altro. Credo di aver dimostrato il contrario: vengo spesso accusato di aver dato troppo spazio all’arte orientale. Non penso però che sia questo il problema: non è questione di chi da troppo o di chi da poco, si tratta di grandissime civiltà che si danno a vicenda, tutte portano i propri valori. 2500 anni fa su questo pianeta sono nate delle montagne gigantesche: Socrate in l’occidente, Budda in India e Confucio in Cina. E sono strutture enormi, che s’influenzano a vicenda. L’incognita del futuro sarà capire cosa avverrà di questa fusione. Credo che sarà meraviglioso; vorrei essere qui tra cinquecento anni e vedere a che punto siamo».
Sembrerebbe che le arti si stiano omogeneizzando (e anche i media lo dimostrano) sul predominare del senso della vista. Esiste, quasi in contrapposizione, una mostra in corso da diverso tempo a Milano e già proposta in tutta Europa: Dialogo nel buio, un percorso organizzato dai non vedenti per sensibilizzare i vedenti sulla tematica della cecità. Di cosa si tratta? Una sorta di ulteriore possibilità dell’arte? La presa di coscienza che la realtà non è completamente visiva, ribaltando un paradigma fortemente radicato nella civiltà occidentale?
«Il paradigma della visibilità dell’arte è tipico di tutte le civiltà, anche di quella cinese, indiana ed islamica. La mostra Dialogo nel buio nel 1999 a Palazzo Reale l’avevo voluta io. E appena fu pronta, ancora prima dell’inaugurazione, feci un giro all’interno e ne ebbi un’emozione sconvolgente, veramente sconvolgente. Per una persona nata “per guardare” come me (per me le gioie della vita sono le gioie dello sguardo!), fu un trauma, perché mi accorsi che era bellissima senza mostrare nulla. Fu un emozione grandissima. Si tratta di un’altra possibilità: il viaggio nell’interiorità. Un grande artista diceva: “Io dipingo la luce che si vede a occhi chiusi.” Mi rendo conto che in questo viaggio non esiste neanche quella luce: tutto è interiore, intimo eppure percepibile e a suo modo visibile, presente. Una mostra bellissima, un viaggio dentro a se stessi. Da consigliare a tutti».