Alberto Bevilacqua
Nessuno, beninteso, può negare l’importanza di uno scrittore come Bevilacqua. La sua Parma proustiana, sospesa, sognante, dalle tinte sfumate, dalla luce sommessa e vibrante, è la stessa di Stendhal e di Attilio Bertolucci. E la sua poesia in versi fonde, come quella dei metafisici inglesi, intelletto e sensualità, espressione appassionata ed equilibrio formale. Eppure, leggendo l’articolo apparso sul Corriere della Sera del 21 marzo 2012, non si può non lamentare qualche caduta di stile.
Saffo sarebbe stata «una maestra di quelle scuole di tortura in cui i signori dell’isola mandavano le loro figlie per essere iniziate all’arte dell’amore», facendone così «infelici ragazze costrette a essere penetrate da falli d’acciaio o di cuoio, sverginate nel più crudele dei modi». Testuale. Forse è una parodia: una estrosa e provocatoria rilettura di Saffo attraverso un sinistro, cruento mélange di Aretino, Giorgio Baffo, Sade, Pasolini, con un tocco da b-movie splatter e gore degli Anni Settanta (senza con ciò voler sminuire, semmai omaggiare, il genio solitario, allucinato e maledetto di Lucio Fulci). In questo caso, bisogna dire che il travisamento, il tradimento dei classici rientrano appieno fra i diritti e le prerogative di uno scrittore originale, anche quando opera come saggista.
Non so se Bevilacqua abbia letto Saffo (meglio se nella traduzione, forse non fedelissima, ma di una modernità assoluta, e insieme di una classicità solare, senza tempo, di Quasimodo). Ad ogni modo, nel suo tiaso, nel suo delicato e raffinatissimo cenacolo, nessuna fanciulla veniva sverginata con falli d’acciaio (se non altro perché, senza nulla togliere alla già relativamente progredita Téchne dei Greci, per l’acciaio bisogna aspettare la seconda metà dell’Ottocento). Di falli di cuoio, antenati dei godemichet cari alla letteratura erotica settecentesca, parlano Aristofane (in un divertente passo della Lisistrata ove le donne ovviano ingegnosamente all’astinenza dovuta al loro “sciopero del sesso”) ed Eronda, in un suo delizioso, e purtroppo frammentario, Mimiambo, il sesto, forse in assoluto la pagina più censurata e proibita della poesia greca, ove due intime amiche elogiano un oggetto di piacere, opera di un sapiente artigiano dalle cui mani escono «prodigi degni d’Atena», «morbidi come un sogno», che stregano le donne al solo vederli. Il fallo è un oggetto di piacere, non di tortura; e, in un contesto che ancora lega la sfera della sessualità a quella del sacro, il fallo è anche (come il lingam della tradizione induista, e come le statue falliche, simbolo di fecondità e di fortuna, cui sono dedicati i Carmina Priapea) oggetto di venerazione.
L’idea della sessualità come sofferenza, coercizione, pena, è decisamente moderna, e figlia del libertinismo sei-settecentesco, ben più che (come troppo spesso si è portati a pensare) dell’Inquisizione e dei processi alle streghe. Semmai, i frammenti di Saffo (rari, preziosissimi, tali da far rimpiangere amaramente la perdita dell’opera completa) mostrano un mondo tiepido, indugiante, dolcissimo, in cui «su morbidi letti / si sazia il desiderio», «nettare e gioia» si versano in libagione agli dei, si invoca Afrodite «più aurea dell’oro»; la sposa arriva intatta alle nozze, ed «Eros si effonde sul suo viso incantevole».
Quell’incanto rivivrà, venato d’estetismo decadente, nella cultura omosessuale di fine Ottocento, grazie a Renée Vivien, eccentrica bohémienne, sorta di dandy al femminile, la quale tradurrà, o meglio riscriverà, i frammenti della poetessa di Mitilene.
Nella Vivien, Saffo appare come l’incarnazione di una bellezza ambigua, sfumata, contaminata, velata da «tenebre insondabili» che però lasciano ancora trapelare, remota, la sua voce.
Nulla a che vedere con le torture di Bevilacqua. Ma neppure con la militanza femminista e la moderna o postmoderna rivendicazione, spesso battagliera e quasi rabbiosa, delle “identità”, delle “minoranze”, delle “diversità”.
Più interessante la domanda che ‒ dopo una bizzarra digressione, un po’ da Oulipo, da letteratura combinatoria, sui semafori della Danimarca ‒ Bevilacqua si pone circa il modo in cui l’omosessualità poteva e può essere vissuta in civiltà primitive, che non hanno avuto nessun contatto con la moderna cultura occidentale.
Si resta sorpresi nel venire a sapere, ad esempio, che presso i Dagara la persona omosessuale, per il suo fondere in sé polarità opposte, per il suo fare della propria identità sessuale oggetto e insieme soggetto di desiderio, per il suo fare del Sé un Altro-da- Sé, è percepita come vivente fusione degli opposti, come crocevia di vibrazioni cosmiche, e dunque come sacerdotale garante del contatto fra il mondo dei vivi e quello dei defunti, tra la sfera terrena e quella celeste (o infera); o che, fra gli Akan, si crede che esistano cerchie, sette, “tiasi” di streghe-sacerdotesse capaci di rubare agli uomini il kra (il ka degli egizi, il ker dei greci), quella forza che è, insieme, soffio vitale, identità, e destino, e farne ciò che vogliono, farla danzare e ruotare a piacimento (come i pàighnia, i giocattoli, cui Platone paragona i destini degli uomini) nel loro cerchio magico. Come Yemaya, una delle tante Grandi Madri dei riti africani, e dei riti arcaici in genere, così l’Afrodite di Saffo può impadronirsi dell’anima della persona amata e condurla ai voleri della poetessa che invoca la dea.
Come nell’enigmatico Partenio di Alcmane, che forse celebra un simbolico matrimonio fra donne ‒ orò ot’àlion, «la vedo splendere come il Sole», chrysòs ot’akératos / tò d’argyrion pròsopon, «come oro incorrotto, / come argento il viso»: eco, anche fonica, nella ricorrente sillaba circolare, di Horos e di Ra; femminilizzazione, o femminilità originaria, della divinità solare; risonanza arcana, fonosimbolica, di ka, kra, ker, di un principio spirituale originario, rapito e stregato; eterno femminino dal volto luminoso, come l’Afrodite di Saffo.
Eterìe e Tìasi, insomma, anche in civiltà decisamente animistiche, prerazionali, eppure tutt’altro che prive di istituzioni, gerarchie, rituali. Forse permangono, cristallizzati, in questo sciamanesimo africano, elementi di una spiritualità dalle radici remotissime.
Se l’omosessualità è di per sé alterità, quella primitiva e premoderna, legata alla sfera del sacro, lo è doppiamente. Ci si trova di fronte all’Unheimliche, al Perturbante, nel senso freudiano più pregnante; a ciò che disorienta ed estrania; e che in questo caso coincide con il Numinoso, con il sacro come mysterium tremendum.
Come Dante di fronte alle donne (un tiaso anch’esse, in fondo) che «hanno intelletto d’amore», e che per questo confondono e quasi umiliano il poeta, non più padrone del suo sentire, dei suoi significati. «Sì come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri». Le donne che hanno intelletto d’amore come la Sibilla Cumana, la sacerdotessa che media il contatto con l’oltremondo: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla».
Il discorso dell’altro è alieniloquium, trama rivelatrice e fugace, significato e impermanenza, messaggio che vien meno nel momento stesso in cui viene percepito; e trascolorante divenire, inafferrabile mutevolezza della natura, gelo che diventa calore, e vi si scioglie.
«Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Altro intendimento: il confronto con l’altro da sé, con la sua aseità chiusa, circolare, impenetrabile, smaschera le debolezze e le ambiguità del Sé, e ne fa vacillare i confini.
Certo, lo sguardo ancora decisamente maschile del soggetto lirico medievale (e non solo medievale) esorcizza il femminino sublimandolo e idealizzandolo (eppure ne avverte, altrove, il potere devastante di «caldo borro», voragine tiepida o rovente, umida o paludosa, che risucchia il corpo, l’anima, il raziocinio: «Ohmè, perché non latra / per me, com’io per lei, nel caldo borro?»: donna, qui, come divinità non luminosa e celeste, ma terragna, ferina, infera ‒ il grembo della donna, cavità desiderata e temuta, scaturigine e meta, è anche quello della terra ‒ vita e morte, venire-alla-luce e tornare al buio della materia).
Sotto certi aspetti, il lapsus di Bevilacqua può essere rivelatore. Il sadismo è l’altra faccia dell’angelismo: due modi opposti per misurarsi con l’universo dell’alterità, snaturandone l’elemento umano, il tramite di un possibile, problematico confronto, e insieme riducendone ad una misura controllabile ed esprimibile (sublimata o distorta, scorporata o reificata) la sacralità, l’alterità, la trascendenza (quand’anche si tratti di una trascendenza relazionale, immanente).
Les plaisirs isolés, démontrés aussi délicieux que les autres, et beaucoup plus assurément, il devient donc tout simple, alors, que cette jouissance, prise indépendamment de l’objet qui nous sert, soit non seulement très éloignée de ce qui peut lui plaire, mais même se trouve contraire à ses plaisirs. (…) L’émotion de la volupté n’est autre sur notre âme qu’une espèce de vibration produite, au moyen des secousses que l’imagination enflammée par le souvenir d’un objet lubrique fait éprouver à nos sens, ou au moyen de la présence de cet objet, ou mieux encore par l’irritation que ressent cet objet dans le genre qui nous émeut le plus fortement. (Justine ou les Malheurs de la vertu, Marchese De Sade ndr)
Si sentono già la secousse nerveuse, la disparition vibratoire del Soggetto nella vita impassibile, eppure autocosciente, del Linguaggio e dell’Immagine, che troveremo nei simbolisti, e poi nei surrealisti. Il Divino Marchese coglieva l’essenza di un piacere autoreferenziale che può essere quello del carnefice come quello del poeta. Annientare, nell’altro, la sua alterità, nello stesso tempo in cui si annienta la sua umanità; e trasmutarlo in un puro oggetto, in una pura passività, sia essa parola poetica, nome disincarnato (Beatrice, Laura, Erodiade) ‒ o, viceversa, realissima carne, piagata e sofferente.
Il cerchio magico del verso o della frase tornita, la compiutezza asfittica, l’autoreferenziale clausura della dizione letteraria sono una sorta di risposta speculare, e insieme di trasposizione compensatoria e risarcitoria, del cerchio altrettanto e ancor più magico (icona dell’eterno ritorno, della ciclicità del rito) che è simbolo dell’eterìa, del tìaso, o della notturna orgia dionisiaca (la quale diverrà, nel Medioevo, il sabba delle streghe, o il convegno delle fate); immagine, il cerchio, il kyklos, il radius, dell’alterità che pone, e cela, se stessa come medesimezza irraggiungibile, o come inconoscibile identità.
Sguardo maschile, certo ‒ parziale, forse addirittura, e consapevolmente, ottuso ‒ è quello stesso che ha animato queste mie brevi pagine.