Ieri sera, a cose fatte, mostrava ai giornalisti la medaglia lucida appuntata al petto. “Con questo provvedimento non sarà più possibile un caso Englaro”. Non si è chiesto, il soldato Sacconi, a quale prezzo. Non se lo è chiesto lui né se lo è chiesto il reggimento di solerti senatori che ha votato con fierezza gli articoli di una norma che impone per legge sofferenza e atrocità. Ma che importa, loro sono “per la vita”.
Settimane fa, davanti alle quattro misere righe di testo presentate come legge urgente, chiedevo inutilmente al ministro Sacconi, e al Parlamento, di fermarsi a riflettere. Di pensare al fatto che i malati, e le malattie, non sono tutti uguali. Che il cammino di ognuno di noi verso la fine, proprio perché individuale e personale, non può essere regolato con una legge che non esplori le differenze. Dicevo, in quelle righe più emozionate che razionali, che per un malato terminale di cancro l’alimentazione a volte è una perfida tortura. Lo conferma, oggi, l’intervista pubblicata da “Repubblica” a Daniela Valenti, titolare di due hospice a Bologna: “Il divieto di interrompere l’idratazione e l’alimentazione può avere effetti devastanti per chi sta morendo di tumore”.
In quella pagina ho raccolto centinaia di testimonianze. Centinaia di rei confessi che come me hanno avuto una persona cara in punto di morte e, in un estremo gesto di pietà umana, vincendo il feroce desiderio di non separarci mai da coloro che amiamo, hanno violentato i loro istinti ritraendo la mano che offriva il cibo.
Ma voi no. Non sia mai che i soldati della vita si facciano piegare da una folata di buon senso. Vi siete appropriati della parola, vita. Giocando a contrapporre la cultura della vita alla cultura della morte. Sempre secondo la vostra illuminata opinione, s’intende. (Né vi sfiora di lontano l’idea che le due, la vita e la morte, siano compagne inseparabili.) Laici o credenti, difendete incrollabilmente la vita dal concepimento alla nascita e dal coma alla morte. Ma di tutto quel che c’è in mezzo vi importa poco.
Davvero mi sfugge di quale malinteso significato del termine “vita” parliate, ministro Sacconi. E mi rivolgo di nuovo a lei perché ieri – poche ore prima che lei si presentasse raggiante davanti ai giornalisti per celebrare la sua gloria – un uomo è si dato fuoco a Roma, davanti al Campidoglio, perché ha perso il lavoro. E perché leggo – sul sito del dicastero che le è stato affidato con il voto degli italiani (siete servitori, signor ministro, non lo dimentichi) – che lei è ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali.
Questa mattina, scorrendo le pagine dei giornali, cercavo avidamente tra le dichiarazioni di giornata una sua parola sull’importanza di difendere la vita di chi, a 39 anni, non ha più mezzi per proteggere la vita dei suoi cari. La moglie, i due figli. Il più piccolo ha quattro anni. Non se ne abbia, signor ministro, ma non ho trovato una riga. Forse i giornalisti non hanno ritenuto di riferire la sua preoccupazione. O forse non ha ritenuto di riferirla lei, preso com’era a difendere la vita degli italiani.
Ecco, signor ministro, mi piacerebbe tanto sapere che cosa intende lei con la parola vita. E non sa come mi piacerebbe, un giorno di questi, senza fretta, aprire i quotidiani e leggere una sua dichiarazione: “”Con questo provvedimento non sarà più possibile un caso Vincenzo C.”. Perché lei, di suo pugno, avrà redatto e difeso a spada tratta una legge che protegga i cittadini che non hanno di che sfamare la famiglia.
Sfamare, pensi l’ironia: mentre si affanna per far ingerire cibo a viva forza a chi non ne desidera più, non si accorge, signor ministro, che c’è gente che ne avrebbe un disperato bisogno. Tutti e due, l’uno e l’altro, sono sotto la giurisdizione del suo dicastero.
Post Scriptum. Intorno alle 18.30 del 26 marzo il Senato ha approvato il Disegno di Legge sul testamento biologico, se così si può dire. Stendendo un velo pietoso su una buona parte del dibattito sul voto, ora il testo passa alla Camera. Il commento che ho scritto questa mattina non cambia di una virgola.