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Dà da pensare e molto, in un giorno tristissimo come questo, quella scritta “Immota manet” che compare sullo stendardo dell’Aquila. Dà da pensare perché ancora una volta, come in una condanna senza fine, essa pare fare appello alla tenacia di una città che ha già resistito ai ripetuti terremoti che nei secoli hanno distrutto tante sue straordinarie vestigia. Distruzioni che si assommano alle fatiche infinite di una terra, l’Abruzzo, storicamente povera e votata all’emigrazione: verso il resto dell’Italia (Roma, come è noto, è la più grande città abruzzese) e verso l’America.
Al Guido Piovene del Viaggio in Italia del 1957, l’Abruzzo appariva ancora “isolato, cantonale e centrifugo”. E tutto questo proprio mentre montava l’irresistibile ascesa della modernista Pescara, ( la città che “non ha rughe”, per riprendere l’icastica immagine di Giorgio Manganelli), ulteriore ed ennesima anomalia di una regione con tali e tanti ipotetici baricentri da far dubitare di un suo carattere identitario chiaro e definito.
Per cercare il vero centro di questa regione intrinsecamente centrifuga bisogna dunque ripartire, ironia della sorte, proprio dal suo dato geologico – così fondamentale e così pericoloso: da quella catena appenninica che attraversa l’Abruzzo in senso longitudinale e comprende il Gran Sasso, la Majella, il Velino.
Montagne tutte di straordinaria bellezza, che secondo alcuni conservano il senso del sacro più ancora delle Alpi, ma che per contro non hanno certo aiutato lo sviluppo delle comunicazioni e delle infrastrutture, alimentando piuttosto un sentimento di separatezza, isolamento; per l’appunto quel tratto cantonale a cui si accennava all’inizio. E da cui sono via via fiorite le “cento piccole capitali dei monti”, in un susseguirsi incomparabile di bizantino, romanico, gotico, barocco. Senza contare i mille monasteri di epoca medievale appollaiati in vetta a rocce scoscese, a strapiombo sui burroni, in mezzo a profondissime gole, che punteggiano l’intero territorio. E che ora giacciono spesso distrutti, sotto montagne di macerie.
Questa, da sempre, è una delle nostre regioni più devastate dai sismi. Così “l’arte abruzzese appare come smozzicata dai terremoti”, scriveva ancora Piovene, “e ciò che oggi ne vediamo è un avanzo”. Ora, so bene che non è facile posare lo sguardo sui monumenti nel momento del lutto e dello strazio di tante persone.
Ma in realtà il sentimento di rovina si moltiplica, si approfondisce e si acuisce, nel vedere insieme alle case il crollo delle chiese, lo sconvolgimento dell’intero volto di una città. E questo è tanto più vero per una città intimamente segnata dalla storia e dal tempo come l’Aquila – paziente e ostinata, scabra e fiera – ora, per l’ennesima volta, segnata durissimamente nella sua anima più profonda.
Davvero, colpisce il cuore pensare in rovina assolute meraviglie come la basilica di Santa Maria di Collemaggio, la chiesa delle Anime Sante in piazza del Duomo, la curia vescovile, la straordinaria basilica di San Bernardino di cui è crollato il campanile, afflosciandosi su se stesso. Colpisce il cuore perché quei monumenti, quei templi, contrassegnano meglio di qualunque altro edificio il carattere della città.
Chiunque abbia visitato l’Aquila rammenta senz’altro la sua luce di montagna, che nelle giornate di sole la rende vivida, brillante, tonica. Rammenta il suo antichissimo tratto araldico, nobiliare, che si rifrange in tanti preziosi palazzi. Rammenta la sua sedimentata cultura musicale (a Rubinstein venne data la cittadinanza onoraria in cambio del suo amore per il pubblico aquilano, colto e competente); e ancora, il monumentale e levigato castello che la contrassegna come un vero e proprio stemma architettonico; l’intrinseca drammaturgia scenografica delle strade del suo centro storico, ritmata dal continuo incrocio di Medioevo, Rinascimento e Barocco, dove anziani dai tratti contadini si confondono alle masse di studenti universitari che vengono dal circondario.
Rammenta tutto questo, ma intanto scorrono immagini diverse davanti ai suoi occhi. E sono immagini di una catastrofe, di una tragedia senza fine. Tutti i nostri ricordi sembrano oscurati da un mare di polvere, macerie, dolore, morte. Tutti quei mirabili edifici, eleganti, rigorosi, leggeri, sembrano – d’improvviso – cancellati dalla nostra mente.
Ma non è la prima volta che questi edifici hanno patito tale indicibile strazio. Basti, per tutti, l’esempio di San Bernardino. È davvero difficile trovare un altro monumento che incarni con altrettanta intensità le reiterate sciagure della città e la sua capacità di risorgere. La costruzione fu iniziata nel 1454, a soli dieci anni dalla morte del santo, di cui la cittadinanza aquilana aveva ottenuto dal papa il permesso di custodire le spoglie. Ma passano appena cinque anni e i lavori vengono interrotti una prima volta proprio a causa di un terremoto. E si dovrà attendere il 1542 per vedere ultimata la meravigliosa facciata rinascimentale, assieme agile e maestosa: l’unica parte della chiesa originaria risparmiata dal nuovo e ancor più terribile sisma del 1703.
Pare un condanna. Da allora sono passati oltre tre secoli; ma l’Aquila (e l’intero Abruzzo) devono ancora una volta stringere i denti. Sempre per la medesima ragione. Sempre sotto le scosse della terra che trema. E devono fare nuovamente appello al verso mutuato da Virgilio e posto ad emblema della città: “Immota manet”.

[fonte – Repubblica.it: Franco Marcoaldi]

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