«Guardi che sarà pure un business, ma questa è prima di tutto un’invenzione». Dice proprio così Enrico Dini, geniaccio, ingegnere, inventore, mentre prende un bel respiro e avvia la macchina con cui punta a sostituire le colate di calcestruzzo con il «visto si stampi», e le vertigini di cantiere con l’edilizia modello tipografia. Visto. Si stampi.
Il foglio è spesso un centimetro ed è steso per dieci metri quadri senza un’ombra di piega. L’inchiostro invece è trasparente, a metterselo sulla lingua sa di acqua salata, e anche all’odore ricorda i bagni termali di Saturnia o di Montecatini. D’altronde non siamo lontani: l’azzardo tipografico cui stiamo per assistere è ospitato in un capannone di Bientina, a pochi chilometri da Pontedera, tra i campi della provincia pisana. E toscana è pure la sala comandi: un guru e quattro seguaci che sembrano pronti per il remake di Amici miei, e invece sono qui per cambiare il mondo, o almeno il modo in cui l’abbiamo abitato finora. Sì, perché il foglio in realtà è uno strato di sabbia, l’inchiostro un collante a miscela di cloruri, e a essere stampati non sono documenti in formato extralarge ma cinque fette di una colonna di pietra destinata a stravolgere l’immaginario di architetti e costruttori. L’ingegner Dini, estroso capocordata di questo drappello di pionieri, la spiega semplicemente così: «Oggi è normale costruire strutture di legno, torri di cemento, palazzi di vetro. Fra qualche anno sarà normale stamparsi una casa di roccia».
Si chiama “rapid building” e da più di vent’anni si nutre di ricerca sotterranea, come un fiume carsico che stenti a trovare la superficie: era il 1989 quando il Mit di Boston registrò un brevetto per stampare oggetti in tre dimensioni, il 1996 quando dalla University of Southern California fecero sapere di essere in grado di riprodurre una parete da un file digitale, ma è nel 2009 e dintorni, in un paesino del centro Italia, che il primo edificio a stampa rischia di diventare realtà. Enrico Dini preme il bottone, il carrello della stampante si mette in moto e cento beccucci sorvolano il “foglio” e depositano l'”inchiostro” seguendo le istruzioni di un file grafico in Cad convertito in modalità Stl, ovvero per stampa stereolitografica.
Passaggio dopo passaggio e centimetro dopo centimetro l’inchiostro-collante muta la sabbia in roccia e trasforma il disegno in una serie di blocchi che, come altrettanti pezzi di lego, andranno poi a comporre la struttura definitiva. Per produrre il classico cemento da costruzione ci vogliono calcare, argilla e temperature che superano i mille gradi, con ovvie conseguenze energetiche e ambientali; per sfornare la roccia made in Bientina basta della normalissima sabbia mista a un innocuo (ma brevettato e super segreto, vedi box nell’ultima pagina) cocktail di cloruri: tutta roba che dalla natura viene e alla natura può tornare domani, fra un secolo o un milione di anni. È questa la marcia in più della “tipografia” di Enrico Dini. Perché a stampare case ci hanno provato in tanti, ma ci sta riuscendo solo questo talento toscano dal sorriso sempre in allerta che ha iniziato mettendo alla prova le intuizioni del Mit sull’arenile di Porto Santo Stefano, all’Argentario: «Sono sempre stato appassionato di castelli di sabbia: è lì che ho usato per la prima volta l’acqua salata per disegnare e compattare forme in tre dimensioni».
Faceva tutt’altro, Enrico Dini. O meglio, inventava tutt’altro. Nella sua vita precedente si circondava di robot per l’industria calzaturiera: «Prima di scoprire la manodopera a basso costo in Cina o in Romania le nostre aziende puntavano tutte a sostituire il lavoro umano con quello meccanico. E c’era grande richiesta per i miei macchinari». Tra i best seller dell’epoca si contano la rifilatrice automatica, il siliconatore di suole e il levastivali, di cui Dini parla come di «un omone d’acciaio capace di sradicare con un solo gesto un paio di stivali dalla giostra di produzione». Chissà se sono termini tecnici: all’ingegnere piace lasciar correre le parole, ora parla di giostra, ma prima raccontava di sé come di un disadattato che «prova fastidio per tutto ciò che funziona e si eccita solo dove c’è un problema da risolvere, o si apre un varco in cui infilare qualcosa di nuovo». I varchi lo portano prima a Vigevano, per un progetto del Cnr sull’automazione industriale, e poi a Rovereto, dove si tratta di mettere a punto un “lettore” del piede per scarpe su misura: «Tutti usavano il laser, noi ci provammo con la cosiddetta fotogrammetria dei vicini, ovvero scattando decine di foto dello stesso piede da diverse angolature, e ricostruendone poi l’immagine al computer». Ed è proprio ricostruendo piedi che Dini scopre la stampante per oggetti in tre dimensioni: «A Rovereto ci facevamo piccoli calchi di gesso, ma appena la vidi in azione mi venne spontaneo pensare: “Con questa roba ci si può tirare su una casa!”».
L’esclamazione è di cinque anni fa, da allora sono passate migliaia di ore di calcoli, disegni, fallimenti, aggiustamenti. Il risultato è questo capannone intriso di sabbia candida, un paio di computer che custodiscono tutti i segreti, due taniche piene di collante salato e un ring di sei metri per sei all’interno del quale si affrontano forma e materia, fogli e inchiostro. È questa la via italiana all’innovazione? È giusto fare da sé, restare artigiani, coinvolgere gli amici, ipotecare la casa? Dini collabora e compete con atenei australiani, inglesi, americani, ma ha preferito i capannoni industriali alle aule universitarie, il rischio d’impresa agli onori accademici: «Una sola volta ho cercato la consulenza degli ingegneri strutturisti di Pisa. Ma il direttore del corso di laurea mi ha ricevuto nell’androne».
Mentre ripercorre la sua storia, il nostro inventore non sa se essere più sollevato perché in fondo alla fatica intravede il lumino del nuovo mondo, o spossato al pensiero dei mesi in cui tutto sembrava irridere la sua follia solitaria: una grandinata gli sfascia la stampante quasi in dirittura d’arrivo, i soci della prima ora lo abbandonano in malo modo, il primo “inchiostro” si rivela inquinante e infiammabile, la Regione Toscana nega ogni finanziamento parlando di “progetto irrealistico”, una multinazionale del cemento sta per metterci 15 milioni di euro quando nel mondo là fuori si scatena il più dirompente crollo finanziario dalla crisi del ’29 e il tesoretto da un momento all’altro scompare. No, non è stato esattamente come passare un pomeriggio all’Argentario a costruire castelli di sabbia: «Non poteva essere più dura, ma ci siamo quasi», dice Dini con un residuo d’affanno. A fine turno i pezzi sono pronti, la stampante ha creato cinque blocchi di roccia, alla squadra di inventori-architetti-manager- informatici non resta che prendere il muletto, rimuoverli, togliere la sabbia non “impressa” e allestire un nuovo “foglio” per la “stampata” in programma domani. «La tecnica è acerba e noi siamo dei rompighiaccio», spiega Enrico Dini. «In fondo mi sento come Gottlieb Daimler, che nel 1892 prende un carretto e ci monta su un motore a combustione interna. Non era granché ma aveva inventato l’automobile». Il primo viaggio della nuova architettura porterà Dini e soci in Sardegna dove nella primavera 2010, a meno di intoppi burocratici, “stamperanno” una villa di 300 metri quadri tra le rocce e il lentisco alle spalle di Porto Rotondo. A quel punto sarà ovviamente molto più semplice toccare con mano vantaggi e limiti del “costruire veloce”, che gli alchimisti dell’edilizia stanno inseguendo da anni come una nuova pietra fi losofale: «Dal punto di vista statico siamo assolutamente tranquilli perché i test ci dicono che la nostra roccia ha proprietà meccaniche superiori al calcestruzzo. Resta da valutare lo stress sul lungo periodo, ma abbiamo la ragionevole certezza che supereremo anche questa prova».
Vantaggi, magagne, verifiche, prove, collaudi. Cresce l’attesa per il debutto in cantiere, ma anche la consapevolezza che non sarà l’ultima tappa del viaggio: «Potrei dirle che con la nostra tecnica abbattiamo i costi e che i nostri materiali sono ecocompatibili, ma la verità è che siamo solo all’inizio: ci sono ancora molte ricerche da fare e centinaia di libri da scrivere». Uno dei primi non potrà non occuparsi di James Gardiner, giovane architetto di Melbourne che da anni studia l’evolversi del rapid building, ha avvicinato i progettisti attivi in tutto il mondo, e dopo un attento esame – di cui ha riferito in uno speech alla convention Rapid 2009 di Chicago – ha deciso che il gruppo di Dini è quello su cui puntare. Nonostante braccia e mani facciano pensare più a badilate di sabbia che a mouse e compasso, è a James che si deve il progetto architettonico della villa in Sardegna. Ovvero di quello che sarà ricordato come il primo “edificio a stampa” del mondo.
Costerà meno. Molto meno. Potrà essere “stampata” in un paio di mesi. Ma è soprattutto dal punto di vista architettonico che la scommessa sarda mette sul piatto una posta pesante: «In questi ultimi anni la tecnica di progettazione si è evoluta moltissimo», spiega James. «Tanto che ormai si possono disegnare in 3D edifici strutturalmente impeccabili di quasi tutte le forme. Ma poi ci si scontra inevitabilmente con i limiti di cantiere». Difficile eludere la rigidità delle casseforme di legno e delle colate di calcestruzzo, «tanto che anche gli estrosi edifi ci di Frank O’ Gehry», continua Gardiner, «si sbizzarriscono in superficie ma nel loro nucleo rispettano rigide geo metrie strutturali».
La costruzione a stampa è chiamata “free form” proprio perché fa saltare questi limiti: bypassando casseforme e colate permette di creare – strato per strato, foglio di sabbia per foglio di sabbia – colonne cave, muri sghembi, volumi sinuosi. Per disegnare il progetto della villa in Sardegna l’architetto australiano si è ispirato alla levigatezza delle rocce di mare e alla consistenza delle ossa umane, tracciando gusci perimetrali che si confondono con il paesaggio e strutture portanti che, come il nostro scheletro, sono piene e vuote quanto basta per reggere il peso senza costituire un ingombro. Solo sabbia, solo sali, pochi limiti, niente cemento. «Non abbiamo più bisogno di volumi pieni e angoli retti», chiosa Enrico Dini. «Guardi questa colonna che il prossimo anno presenteremo all’esposizione di free building di Barcellona: il suo unico vincolo formale è il disegno che l’architetto ha tracciato a computer».
Cambierà l’architettura, rivoluzionerà i cantieri, stravolgerà il paesaggio. E sarà ricordato come un incrocio tra il genio di Gutenberg e quello di Palladio. A vederla così è abbastanza normale che per i primi cinque anni Dini abbia dovuto fare completamente da sé dando fondo ai risparmi. E non c’è da stupirsi se più che collaboratori ha trovato discepoli, che seguono il cammino sapendo che di soldi se ne parlerà solo dopo il big bang. Nulla di strano nemmeno che il nostro inventore abbia provato a contattare una firma dell’architettura come Massimiliano Fuksas senza andare oltre la segreteria telefonica; o che abbia cercato di coinvolgere i capitali del colosso delle costruzioni Impregilo con l’unica variazione che qui le segretarie lo hanno stoppato dal vivo. Sembra normale: in fondo, se uno si monta la testa è giusto che paghi lo scotto. Se non fosse che poi al presunto megalomane basta spedire una mail a enquiries@fosterandpartners. com per farsi ricevere a Londra dal responsabile per l’innovazione di uno dei più grandi studi architettonici del mondo. O comporre il numero dell’archistar Zaha Hadid per avviare mesi di trattative per una collaborazione che sfuma solo in dirittura d’arrivo.
Ecco, è tutta qui la differenza: è presto per dire come sarà cucinare, dormire o bersi un aperitivo in una villa “stampata”, ma di sicuro non lo è per capire che in questo capannone tra i campi toscani sta succedendo qualcosa d’importante. Dalla partnership con lo studio Foster è nato un progetto che ha finito per coinvolgere l’istituto Sant’Anna di Pisa e Alta, l’azienda di ricerche spaziali che sempre a Pisa dispone della più grande camera a vuoto d’Europa. In tanta compagnia Dini partecipa al bando “3D printing of stone-like structures using lunar soil” con cui l’Agenzia spaziale europea vuole mettere alla prova la “stampa di case” per scenari di colonizzazione “leggera” dello spazio.
È lungo il viaggio dell’inventore di Bientina. Parte dalla Toscana, passa per Porto Rotondo, punta dritto alla luna. Difficile dire se ci arriverà. Peccato che per prendere la rincorsa abbia bussato a Roma e Milano, riuscendo a farsi aprire solo da sir Norman Foster, 22 Hester Road, Riverside, London. Inghilterra.
[fonte: Wired.it]