Non c’è niente da fare: per avere ascolto bisogna incatenarsi a un cancello o issarsi su una gru. In alternativa si può bivaccare per un mese su una torre. Se i mesi sono tre, e la torre è aragonese, le probabilità d’essere ascoltati salgono vertiginosamente. La cosa migliore, ma non è cosa certa, è quella di rinchiudersi per sette anni nell’ex carcere dell’Asinara, possibilmente a digiuno. Un anno e trentaquattro giorni – e magari avendo l’impudenza di fare colazione, pranzo e cena – è stato provato empiricamente sulla pelle dei cassintegrati della Vinyls, non basta.
E non basta neppure scrivere un libro corale, e accorato, che parli del loro dramma e del dramma vissuto dalle loro famiglie. Se poi uno soffre di claustrofobia o di vertigini, deve limitarsi a scrivere ad un giornale per non farsi venire travasi di bile che sono sempre dietro l’angolo. Ovviamente anche questo, di per se, non è sufficiente. Il giornale deve avere anche un direttore che pubblichi quello che si scrive. È il mio personale caso: dopo quattro interventi sui vergognosi aumenti dei biglietti applicati dalle compagnie di navigazione sono giunto al quinto.
Mi piacerebbe parlare anche d’altro, a dire il vero. Parlare dei miei alunni, ad esempio, delle loro domande sulla limba che a loro parere gli è stata rubata, parlare del bellissimo intervento di Michela Murgia sugli intellettuali silenti che non merita certamente il silenzio. Ma non c’è niente da fare: appena esco da casa vengo circondato da persone che mi riferiscono i loro disagi: «Ma lo sai che un’intera comitiva di fiorentini ha disdetto la prenotazione nel mio albergo? Ma lo sai che quest’anno non ho affittato neppure per quindici giorni? Ma lo sai che quest’estate mi devo grattare la pancia perché nessuno mi ha chiamato come stagionale?»
E siccome non bastano le lamentele di persona me ne sono giunte una caterva via mail, compresa una di un tale che, in un gesto estremo di protesta, cercherà di fare la traversata su una zattera di bancali e bombole. Per tirare un po’ il fiato, e non diventare monotematico, mi sono barricato in casa e ho deciso di non aprire più la mia casella elettronica. Quando io e la mia bile eravamo tranquillamente stravaccati sul divano mi è arrivato questo messaggio di un collega: «Caro Augusto, ti scrivo perché quest’anno io e la mia famiglia non possiamo rientrare a casa per le vacanze pasquali. Mio padre non sta bene e sicuramente avrebbe avuto piacere di vedere me e, soprattutto, sua nipote che ha compiuto proprio oggi un anno. Ti giuro che mi dispiace da morire, ma davvero non posso. Una traversata che prima costava duecentottanta euro oggi mi costa quasi seicento euro. Ti sembrerà strano ma lavorando solo io non posso davvero permettermi questo lusso».
Ed è stato proprio alla parola “lusso” che ho pensato che il divano, la limba e l’articolo su Michela Murgia potevano attendere. Perché se in una Italia una e indivisibile prendere una nave per le vacanze pasquali è diventato un lusso c’è qualcosa che non quadra. E quelli che nel lusso ci sguazzano devono capirlo, così come lo devono capire i nostri politici pigri e silenziosi e gli armatori come Vincenzo Onorato che, a parole, dicono di amare quest’isola da generazioni. E se non lo capiscono con i primi quattro interventi che sono stati completamente ignorati, lo capiranno, spero, con questo. E se non lo capiranno neppure con questo ce ne sarà un sesto e, chissà, un settimo. Giornale e direttore permettendo, s’intende. Ma, almeno su questo, sono fiducioso.