Addio a Cesare Segre, filologo, semiologo e critico letterario italiano. È stato Professore Emerito dell’Università di Pavia, ha diretto il Centro di Ricerca su Testi e tradizioni testuali dello IUSS di Pavia, ed è stato Accademico dei Lincei
Penso di aver letto “Sostiene Pereira” a diciannove anni. Mi avevano i colpito i necrologi anticipati per i grandi scrittori che Monteiro Rossi redigeva per il vecchio protagonista del libro. A quel tempo, non avrei mai pensato che quindici anni dopo avrei scritto un necrologio posticipato per un critico italiano. I critici a quel tempo non li vedevo di buon occhio, ma lui, Cesare Segre, lo frequentavo.
Era in quel periodo che io e Andrea andavamo a Pavia per seguire le lezioni del Segre. Io ero una matricola di architettura convinta di aver sbagliato facoltà, Andrea una matricola di lettere poco convinta. Il venerdì era consuetudine entrare in quell’antica aula di legno e ascoltare le lezioni del vecchio filologo. Per noi era una cosa naturale: quelle lezioni rientravano in un discorso comune, la conseguenza di un lavoro che stavamo facendo insieme da anni. A quell’epoca ci interessava più diventare scrittori che filologi ma la filologia, se non era un supporto necessario, forniva strumenti estremamente utili.
Trascorrevamo ore ed ore nei bar a parlare di letteratura, bevendo caffé e fumando sigarette. Cercavamo qualcosa (un’idea, una tecnica, una giustificazione) per incanalare il demone comune che, dal nostro incontro a sedici anni, ci perseguitava. L’incontro con Segre cadeva a fagiolo e permetteva di nobilitare i nostri sforzi, imporporando un poco le nostre felpe di tardo adolescenti.
Scoprimmo la forza della letteratura medievale. Nelle mattinate piovose e nei pomeriggi nebbiosi della bassa padana, l’aula caldo-umida dell’ateneo pavese accoglieva la sua voce ferma, mentre ci spiegava le meraviglie del Romanzo di Alessandro, accennava alla forza del ciclo di Roland, alle faccezie del Novellino e del Decamerone. Scoprivamo con lui che, mentre si stava costruendo l’Europa economica, esistevano da mille anni delle ragioni culturali, ben più profonde della moneta unica, per restare insieme e gioirne.
Me lo ricordo, con quel suo viso arcigno che evocava Moravia, raccontarci che per la cultura medievale “citare non era plagiare”, che tutto quello che viene raccontato nei testi medievali evoca un’altra cosa, che esiste una linea espressionista medievale che ha poco di metafisico, che la semiotica è uno strumento straordinario per scorticare la Divina Commedia e le pale di Duccio di Boninsegna, che le lingue romanze c’entrano poco con il latino di Cicerone ma discendono da quello del contadino eternamente sfruttato dai signori.
Per noi, inclini alla socialdemocrazia rivoluzionaria, questo era oro. Forse la nostra chiave di lettura deformava un poco la sua voce posata, il suo carattere signorile, le sue giustificazioni dotte. Fatto stà che, dopo le lezioni, tra me e Andrea seguivano lunghissime diatribe sul valore del simbolismo (che a quel tempo ritenevamo importante, importantissimo), sulla poesia evocativa (mi pare di averla inventata io questa definizione), sul valore universale dell’espressionismo nella scrittura e su mille altre cose che ore mi sfuggono. Andrea era entrato in una fase di identificazione quasi freudiana; più volte mi disse: “Vorrei essere Segre”. Io, poco incline alla psicologia ma non meno ambizioso, mi limitavo ad accumulare appunti e libri, rimandando a domani la scrittura del libro che concilia il ventunesimo secolo con i mille anni precedenti.
Il risultato di quei mesi non importa, non tutte le storie hanno un seguito, non tutti i libri si concludono e si raccontano. Ma l’addio di Cesare Segre, in questo mese di Marzo, mi ha mitragliato di flashback come accade nei più banali film americani nel momento della morte di un amico. Bisognava parlarne. Poco importa la grandezza di questo critico, il suo valore mondiale, la presidenza nell’International Association for Semiotic Studies, il suo ruolo nell’Accademia della Crusca, le numerose letterature italiane che ha firmato. Io me lo ricordo così. E gli devo molto, come devo molto a quei giorni.
Probabilmente queste quattro righe potrebbero essere state raccontate da molti dei suoi studenti incontrati in decenni di attività accademica. Questo accade quando qualcuno insegna dei valori collettivi. E in questo inizio di ventunesimo secolo ce n’è ancora estremamente bisogno.